mercoledì 27 maggio 2015

Per Mia Colpa, di Antonella Mattei. Recensione di Sauro Nieddu

Per Mia Colpa, è un romanzo che mi ha catturato sin dalle prime pagine. Sin dalle prime frasi, anzi, mi sono lasciato prendere dalla scrittura semplice, ma allo stesso tempo varia ed efficace. Col procedere della storia, ho potuto apprezzarne anche la struttura , tanto agevole da seguire che fa passare quasi inavvertitamente i flashback e la frammentazione di alcune scene. Questo in virtù del fatto che niente appare raccontato in maniera casuale, e ogni momento della narrazione contiene informazioni sostanziali allo svolgimento della storia e alla caratterizzazione dei personaggi.

Le qualità del romanzo non si limitano però a quelle stilistiche. Per Mia Colpa, è anche un romanzo carico di spunti, e in cui, altra qualità che mi ha colpito, i significati si svelano lentamente nel corso degli avvenimenti, riuscendo a cogliere di sorpresa il lettore nonostante la narrazione sia fluida e priva di eclatanti colpi di scena.

La trama in sé è piuttosto semplice. Si racconta la vita di Agnese, ragazza con una famiglia difficile alle spalle, cui la vita non ha offerto altro che vessazioni e che tira a campare facendo piccoli lavoretti procuratigli dal parroco del paese. Questo fino a quando l’incontro con Lea, che la prenderà sotto la sua ala protettrice come fosse una figlia, non cambierà la sua vita. Lea è una donna eccentrica, malvista dalla mentalità ipocrita del paese, ma sarà lei a rendere alla protagonista la dignità che merita.

Personalmente, la prima parte mi aveva indotto a vederlo come un semplice racconto di formazione. Poi la parte centrale, in cui Lea racconta ad Agnese la sua storia e in particolare il periodo che la vide deportata e privata della sua famiglia dagli occupanti tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale.

Inizialmente anche questo flashback mi aveva traviato, facendomi credere che il romanzo fosse in qualche modo incentrato sulla Storia, con la esse maiuscola, e sulla memoria. Ma la Storia in questo caso resta in sottofondo, e quel che conta davvero è la vicenda personale di Lea. Superata questa parte, s’inizia a capire in maniera graduale quale sia la direzione finale del romanzo.

Quindi, a questo punto chi sta leggendo si chiederà; “ma in sostanza, di cosa parla questo romanzo?” La mia risposta è; “come per qualunque romanzo di una certa complessità, non è facile da definire”.

È un romanzo che a me ha parlato di voglia di libertà, di come la mediocrità dell’ipocrisia possa essere vicina al male assoluto, e di come la lotta per non soccombere al male possa portare vicino ai suoi confini. È giusto lottare con qualunque mezzo per difendere la propria dignità da una massa informe che di questa parola conosce a malapena il significato? Per le due protagoniste di questo romanzo, la risposta è indubbiamente un sì. Non c’è però un giudizio finale da parte della voce narrante, che, pur simpatizzando con Lea e Agnese, non prende posizioni decise lasciando che il lettore sia libero di formarsi un proprio giudizio.

Dunque una visione della mediocrità come morte della dignità umana. Ma il romanzo, parla anche delle affinità elettive e di come i rapporti che ne scaturiscono possano dar forma all’amore nella sua concezione più alta. Un amore che non necessita dare o prendere, ma semplicemente esiste come legame indissolubile. Tale è il rapporto tra Lea e Agnese. Questa concezione s’intuisce però anche dal legame, più marginale nell’economia del romanzo, tra Lea e un soldato tedesco conosciuto al campo di prigionia. Se ne vede un barlume perfino nel breve, ma pregnante, incontro tra Lea e Ignazio, un vecchio solo cui Agnese sbriga le faccende domestiche. Questo breve episodio, inserto nella parte centrale del romanzo, del resto sembra messo lì proprio per fornire al lettore alcune chiavi di lettura.

Altra cosa da rilevare, i personaggi sono molto a fuoco, inquadrati alla perfezione come esseri umani ma carichi di una simbologia che rafforza il romanzo. Tra essi, giacché gli altri sono stati menzionati, vorrei segnalare la figura del parroco, Don Gino, che facendo da contraltare alle protagoniste cerca di tener salda la propria dignità (senza riuscirci) pur stando a stretto contatto con l’ipocrisia della massa, è lui, alla fine, l’unico vero sconfitto della storia. Un ruolo di rilievo, è svolto anche da Dori, la madre di Agnese, la cui figura, pur negativa, resta fuori dal quadro generale e ambiguamente incorpora in sé il ruolo di vittima e di carnefice.

sabato 23 maggio 2015

Polùp e il Mago-Drago


C’era una volta un bambino di nome Polùp, che viveva in un piccolo villaggio di pescatori.
Poiché Polùp non era tanto grande, quando andava a pescare doveva prendere solo i pesciolini più piccoli, però, siccome era un bravo pescatore, ne prendeva sempre tanti. Polùp era proprio lì, che pescava tutto tranquillo, quando al villaggio dei pescatori arrivò una bruttissima notizia: La Regina delle fatine era stata rapita dall'Orrendo Mago-Drago.

Ad annunciare questa sventura era stata Miletta, la maga del villaggio. Glielo avevano raccontato le fatine che, disperate, erano venute a chiedere aiuto per liberare la loro Regina.
Le cose erano andate in questo modo:

Il Mago-Drago si era travestito da libellula e, fingendo di avere un’ala rotta, aveva chiesto alla fatina Malàb se poteva aiutarlo. Poiché le fatine sono molto amiche delle libellule, Malàb non aveva esitato un solo istante ed era corsa (o meglio volata) a chiamare la regina delle fatine; lei era l'unica che sapeva aggiustare le ali delle libellule con la sua bacchetta magica.

Purtroppo però, quando la regina e Malàb erano tornate, lo Spaventoso Mago-Drago si era tolto il costume da libellula, aveva messo la Regina delle fatine in una gabbia e l'aveva portata nel suo castello. La povera Malàb era disperata perché si era fatta imbrogliare e per colpa sua la Regina era stata rapita, per la vergogna non aveva più il coraggio di tornare al paese delle fatine e nessuno l'aveva più vista.

I pescatori del villaggio, che volevano molto bene alla Regina delle fatine, non ci pensarono un attimo e decisero di andare tutti a salvarla. Assieme a loro partirono anche Polùp che, anche se era molto piccolo, aveva coraggio da vendere, e anche la maga Miletta, perché per sconfiggere il Viscido Mago-Drago, era indispensabile la sua magia.

Il castello del Mago-Drago però era molto lontano e i pescatori, dopo una lunga discussione decisero di andarci camminando dentro l'acqua. In modo che, mentre camminavano, avrebbero potuto pescare e non sarebbero morti di fame in quel lungo viaggio.

Così, i pescatori presero le reti per pescare, presero anche un po' di sale e di pepe per condire i pesci che pescavano, poi salutarono gli altri abitanti del villaggio e partirono.
Il viaggio fu davvero lunghissimo; ci vollero un mese, una settimana e un giorno. Quando finalmente arrivarono al castello del Terribile Mago-Drago, erano tutti stanchissimi, e con i piedi molli a forza di camminare dentro l'acqua.

Purtroppo però i problemi non erano per niente finiti, infatti, il castello del Putrido Mago-Drago era una specie di labirinto gigantesco; c'erano tantissimi corridoi e in ogni corridoio c'erano tantissime porte. In tutto ci dovevano essere almeno un milione di porte e, né i pescatori, né il piccolo Polùp, né la maga Miletta, avevano la minima idea di dove si nascondesse il Tremendo Mago-Drago.

L'unica cosa da fare, anche se ci voleva un sacco di tempo, era controllare le porte a una a una. Così, non sapendo cos'altro fare, i nostri eroi si armarono di pazienza e iniziarono dalla prima porta; Miletta la aprì, ma dietro la porta non c'era nessuno, così la richiuse e andarono avanti. Polùp aprì la seconda porta, ma dietro la porta c'era una stanza vuota, così la richiuse e andarono avanti. Il nonno di Polùp (anche se era vecchio, e camminava col bastone, era andato anche lui; non solo Polùp, ma anche tutta la sua famiglia, aveva molto coraggio). Dicevamo: il nonno di Polùp aprì la terza porta, ma dietro c'era solo una famiglia di topolini che si spaventarono e scapparono da tutte le parti, così la richiuse e andarono avanti. Qualcuno, non ricordo il nome, aprì la quarta porta; vuota. Poi la quinta, la sesta, la settima e così via...

Erano ormai tre giorni che giravano per il castello senza trovare nessuno, tutti quanti avevano i calli alle mani a forza di aprire e chiudere porte. Non ne potevano più di tutte quelle porte! Poi finalmente Polùp vide una lucina piccolissima che spariva dietro una porta, era una lucina color lavanda e Polùp pensò: "Una luce così piccolina, può essere soltanto di una fatina. Dev'essere la fatina Malàb, quella che è scappata per la vergogna!"
Allora disse:
– Fata fatina
perché non mi aiuti
a trovare la Regina?

Ma la fatina non rispose, così tutti i pescatori si misero a cercarla.
Ovviamente non riuscirono a trovarla. Infatti, come tutti sanno, se una fatina vuole nascondersi, nessuno può vederla.
Polùp implorò di nuovo:
– Fata fatina
perché non mi aiuti
a salvare la Regina?

Ma la fatina Malàb non saltò fuori, così la maga Miletta iniziò a chiamare:
– Malàb! Malàb! Vieni fuori, Malàb! Vieni fuori, fatina monella!
Ovviamente non servì a niente. Infatti, tutti sanno che le fatine, quando vengono sgridate, si nascondono ancora di più.
Polùp provò per la terza volta:
– Fata fatina
aiutami ti prego
a salvare la Regina!

E finalmente una porta si aprì e ne uscì una fatina: come aveva immaginato Polùp, era proprio la fatina Malàb. Appena uscita, la povera fatina iniziò a piangere:
– Perdonatemi, perdonatemi! È colpa mia se il Mago-Drago ha rapito la Regina delle fatine!
– Certo che ti perdoniamo. – la consolò la maga Miletta. – La colpa non è per niente tua, cara fatina Malàb, è di quell'Orribile Mago-Drago che ti ha imbrogliata.
La fatina Malàb smise di piangere e Polùp le disse:
– E poi adesso non ha più importanza, ora che siamo venuti a salvarla basta che ci dica dov'è nascosto il Tremendo Mago-Drago.

Così la fatina Malàb li guidò fino a un portone al centro del castello, dove il Mostruoso Mago-Drago teneva prigioniera la Regina delle fatine. Polùp aprì il portone e si trovò davanti il Malvagio Mago-Drago in persona. Raccolse tutto il suo coraggio e gridò:
– Arrenditi Mago-Drago! Libera la Regina!

Ma le cose non erano così facili; il Cattivissimo Mago-Drago non aveva proprio intenzione di arrendersi.
Chiamò il suo primo assistente, il Dragone di fuoco, e gli disse:
– Dragone di fuoco, falli tutti arrosto, così ce li mangiamo per cena!
Allora arrivò il Dragone di fuoco e iniziò la battaglia.
Il Dragone iniziò a sputare fuoco e Polùp e i pescatori si dovettero nascondere dietro i muri per non essere arrostiti. La maga Miletta non si fece scoraggiare e muovendo per aria la sua bacchetta magica cantò:
– Anche se è strano
qui dentro una stanza
io chiamo la neve
neve in abbondanza.

Cominciò subito a nevicare e Polùp ne approfittò per tirare le palle di neve al Dragone di fuoco. Vedendo che la neve spegneva il fuoco del Dragone, anche gli altri pescatori iniziarono a tirare le palle di neve. In poco tempo il Dragone di fuoco si spense, diventò una piccola lucertola rossa e andò a nascondersi in una fessura del muro.

I pescatori, anche se stanchi e bruciacchiati, erano pieni di gioia; avevano vinto la battaglia.
Ma le cose non erano così semplici; l'Orrido Mago-Drago chiamò il suo secondo assistente, il Dragone di ghiaccio e gli disse:
– Dragone di ghiaccio, surgelali tutti, così li mettiamo in freezer e ce li mangiamo domani!
Di nuovo i pescatori dovettero nascondersi dietro i muri per non finire congelati dal soffio del Dragone di ghiaccio. Anche stavolta la maga Miletta sapeva cosa fare; fece volteggiare in aria la sua bacchetta e cantò:
– Anche se nella stanza
manca il camino
io voglio tanti fuochi
fuocone e fuochino!

E magicamente nella stanza apparvero tanti fuochi; Polùp ebbe l'idea di lanciare dei bastoni infuocati verso il Dragone di ghiaccio. Vedendo che il fuoco scioglieva il ghiaccio del dragone, tutti i pescatori si misero a lanciare pezzi di legno infuocati. In un attimo il Dragone di ghiaccio si squagliò, diventò una piccola lucertola azzurra, e si infilò anche lui in un buco nel muro.

I pescatori, stanchi, bruciacchiati e anche un po' gelati, si voltarono tutti insieme per affrontare l'Abominevole Mago-Drago in persona, ma il Raccapricciante Mago-Drago non si vedeva da nessuna parte.
– Lo so io dov'è finito! – esclamò la fatina Malàb. – Quando ha visto che i suoi assistenti avevano perso la battaglia, si è preso paura ed è scappato dalla finestra. Abbiamo vinto!

Così poterono aprire la gabbietta dove era rinchiusa la Regina delle fatine, che subito ringraziò:
– Devo ringraziarvi tutti, cari amici, ma soprattutto Polùp, che è stato così coraggioso.
E finalmente, stanchi e bruciacchiati, un po' congelati ma felici, i pescatori, Polùp, Miletta e le due fatine poterono mettersi in cammino per tornare a casa.

venerdì 22 maggio 2015

La Selezione Colpevole, di Andrea Leonelli. Recensione di Sauro Nieddu

“La selezione colpevole” è una silloge di poesie piuttosto particolare, la scorrevolezza e la leggibilità di quest’opera sono tipiche più della forma del romanzo che non della poesia. Ogni lirica racconta una sensazione precisa, un sentimento espresso da un punto de vista ben delineato. L’insieme, esprime lo stato d’animo del protagonista in un periodo circoscritto della sua vita.

Non ho usato a caso il termine “protagonista” bensì per una scelta precisa dettata proprio dal carattere di romanzo poetico interiore di questa silloge. Questa natura di racconto è resa piuttosto chiaramente dall’autore con l’utilizzo costante della prima persona. Avrete capito quindi, che in “La selezione colpevole” il protagonista e il narratore coincidono. Andrea Leonelli parla direttamente al lettore, mettendo a nudo la sua anima, cercando di sezionare le sue sensazioni fino a esplicitarle totalmente.

Non è uno di qui libri in cui alla fine ci si domanda; “cosà avrà voluto dire l’autore?”, decisamente, al termine della lettura è chiaro quale fosse lo stato d’animo del poeta, chiaro come se lo spazio interiore dell’autore fosse riportato in una mappa posta di fronte agli occhi del lettore.

Che stato d’animo racconta quindi “La selezione colpevole”? Non è di certo un libro allegro. Parla di depressione, di disadattamento e senso d’impotenza, di abbandono, di rabbia, lo fa utilizzando a volte metafore, immagini, a volte in maniera diretta ed esplicita. Il linguaggio è spesso crudo e prende a prestito espressioni dell’ anatomia, della fisica, dell’informatica: non certo la classica terminologia poetica, eppure poetico riesce a essere il risultato d’insieme.

I colori che dominano nella silloge sono colori tristi, anonimi, lo stesso Leonelli scrive in “Senza meta”:


Un orizzontale
lungo e ampio
che si dipana su declivi interiori
pendenze modiche
da basse emozioni
uniformità tranquillizzanti
unicità di monotonie
fra verdi palude e marroni, grigi.

A questi mi sento, senza far torto all’autore, di aggiungerne altri due. Il nero dell’abisso e il rosso cupo del sangue. Il rosso, in particolare, non compare esplicitamente ma il sangue fa capolino in alcune liriche, in altre si fa riferimento ad organi interni: il rosso regna senza venire menzionato in maniera diretta. La presenza del nero abissale è più concreta, presente in numerose liriche, di “La bestia nell’abisso” credo sia sufficiente il titolo, ma per fare un altro esempio, in “Erodendo la pena”:

Sprofondo me stesso
nell’oscurità più nera
del mio animo.

Abissi e profondità oscure, dunque, fanno da efficace contrasto al quadro monotono e appena ondulato descritto in precedenza, diversificando e muovendo così il paesaggio.

Eppure, nonostante come ho già detto non si possa definire certo allegro, il risultato d’insieme non è nemmeno deprimente come potrebbe apparire da questa prima descrizione. Emerge spesso, nonostante tutto, una certa ironia, una certa amara giocosità che Andrea Leonelli mostra nel maneggiare le parole:

Un marcare un territorio virtuale:
esserci
nell’assenza dal sé/corpo
presenziando
come un sé/coscienza-essenza
linearità disgiunte dai contesti
pixel bruciati
cecità da oscurità assoluta
da assenza totale
zeri assoluti raggiunti e superati
superconducendo segnali
a disperdersi nel vuoto elettronico.

In questo estratto da “Loops continui”, per esempio, si può notare il gusto della mescolanza di termini filosofici, fisici, e informatici, ma anche il gioco di assonanze e allitterazioni, di rime interne ai versi.

Per chi fosse stato traumatizzato dallo studio delle poesie a scuola e dalle versioni in prosa impossibili, la lettura di “La selezione colpevole” potrebbe essere un buon approccio per reimparare che la poesia non è solo qualcosa di statico, cristallizzato in versi da imparare a memoria, bensì, al contrario, una forma espressiva libera e coinvolgente. Un ottimo punto di partenza per riconciliarsi con questo genere letterario ormai, aimè, sempre più abbandonato dai lettori.

Per chi leggesse abitualmente poesia, non ho altro da aggiungere; i pochi versi che ho riportato dovrebbero essere sufficienti a dare l’idea del valore poetico di questa silloge.

mercoledì 20 maggio 2015

Cronaca di una partecipazione al torneo letterario IOscrittore, di Sauro Nieddu

 

Quest'anno ho voluto partecipare al torneo letterario IOscrittore, indetto dal gruppo editoriale Gems. Non posso negare di esserne rimasto piuttosto deluso.


Mi è sempre parso interessante il sistema in cui è strutturato questo concorso. Nella prima fase (che è l'unica di cui parlerò, non essendomi, aimè, qualificato per la seconda) i partecipanti erano chiamati a dare un giudizio sugli incipit dei concorrenti (quindici quelli da valutare), ricevendo a loro volta un feedback sul proprio.

La filosofia del torneo mi piace molto, un "do ut des" tra gli scrittori partecipanti, e un "do ut des" da parte della casa editrice interessata, che a fronte di un notevole lavoro organizzativo, è ricambiata da una selezione feroce dei romanzi che potrà pubblicare.

Premetto che non ho mai pensato di poter essere tra i prescelti per la pubblicazione. In primo luogo perché tra un numero di partecipanti tanto elevato - quasi tremila e cinquecento le opere in gara - per entrare nella decina dei selezionati sarebbe occorsa, oltre alle qualità letterarie, anche una notevole dose di fortuna. Chi mi conosce sa che non mi considero un tipo particolarmente fortunato. L'altra questione che teneva basse le mie aspettative è aver partecipato con un romanzo che è il secondo di una serie. Per questo motivo, pur essendo una storia separata dal primo, tende a dare un po' per scontata l'ambientazione e non è detto che venga capito al volo.

Ciò che mi ha convinto a partecipare è stata soprattutto la possibilità di ricevere ben quindici opinioni di lettori sconosciuti, con la speranza che mi aiutassero ad avere una migliore prospettiva su ciò che ho scritto.
E ora, bando alle ciance e vediamo com'è andata.

1  Ok... cominciamo bene! Subito un'insufficienza. Però da quanto scrive questo lettore, mi viene da sospettare che abbia letto solo il titolo: non c'è nessun riferimento diretto a qualche elemento del romanzo che mi possa far pensare il contrario. Cose che capitano. Forse non aveva abbastanza tempo libero...

2  Per fortuna il secondo giudizio mi risolleva un po', una sufficienza pienissima. E questo,  da quanto scrive, pare che abbia addirittura letto! Certo... mi da un po' da pensare che il lettore non abbia intuito che essendo un romanzo di fantascienza, la società e il modo di fare della gente possano essere diversi da quello attuale.  "Crea suspence su quello che sta accadendo rivelando il giusto, ma il modo in cui viene trattato il paziente, considerando il fatto che sta per essere rinchiuso per sempre in una clinica, è troppo brusco e scortese per essere realistico." A pensarci bene, la scarsa gentilezza del personale medico non sarebbe proprio una prerogativa della fantascienza... ma sono punti di vista: beato lui, che ha avuto la fortuna di trovarsi sempre di fronte a dottori  affabili e competenti!



3  Vabbè... anche qui, se non altro si capisce almeno cosa non gli sia piaciuto. Però avrebbe potuto anche sprecarsi un po' di più. In un certo senso non mi dispiace: se l'insufficienza è motivata solo dalle descrizioni sintetiche, credo di essere in buona compagnia. Anche se ci sarebbe da dire che essendo il protagonista/narratore legato a un letto, non è che possa descrivere con troppi dettagli l'ambiente circostante. E come mai non si sarà accorto delle descrizioni decisamente più dettagliate che ci sono poco più avanti? Certo, si è impegnato più del primo... almeno le prime quattro pagine le ha lette

4  Finalmente un giudizio più particolareggiato... mi spiace solo che questo lettore confonda gli errori ortografico-grammaticali con i refusi... ma posso capire. Pur avendone apprezzato l'originalità, l'autore di questo commento muove una critica a riguardo: "da contro, l’idea della reclusione in una struttura forzata non mi ha entusiasmato: mi vengono in mente almeno un altro famoso libro e un altrettanto famosa serie televisiva che prevedevano la reclusione, all'interno di una specifica isola, di un gruppo di persone considerate non-normali…" Davvero? A me vengono in mente almeno un libro, un film e un opera teatrale ambientate in una città. Qualcuna anche ambientata su Marte. Qualcun'altra in una cittadina della provincia americana...

5  Urrà, un altro sintetico! Pur nella sintesi, però, riesce a individuare un punto di forza: l'originalità (?) dell'idea "della coesistenza cosciente del male nel corpo del protagonista". Originali (?) anche "l'ambientazione fantascientifica" e (?) "lo sguardo avvenirista su un mondo dove il male del secolo (scorso) è stato sconfitto". Mi sarebbe piaciuto che questo lettore avesse potuto continuare la lettura oltre l'incipit, almeno fino alla parte in cui (tramite la citazione di alcuni scrittori di fantascienza) avverto i lettori dell'uso già fatto in passato di tutte queste idee.


6  Azz' questo mi ha proprio mazzato! Però mi fa due complimenti di cui qualunque scrittore andrebbe orgoglioso "L'incipit, tuttavia, cattura. I personaggi sono ben descritti" Ecco sorgere un dubbio, se ha letto solo l'incipit, cos'altro ha potuto motivare un voto così negativo? Forse solo perché è "Scritto mediocramente"? (la mediocratà è davvero odiosa). Forse lo pseudonimo con cui l'ho presentato? A voler essere maligno (ma non lo sono, non preoccupatevi) penserei che sia uno di quelli che: "meglio affossare la concorrenza"...

7  Questo scrive come se avesse letto tutto il romanzo: "man mano che la narrazione procede ci si allontana da essa per seguire un flusso differente", non ti è venuto in mente, caro amico, che nel restante ottanta per cento del romanzo, potrebbe tornare a convergere? Anche qui una certa dose di superficialità: "Manca però in parte del l'efficacia che avrebbe potuto rendere più interessante il racconto." provare a darmi qualche spiegazione, no? Ti ha troppo affaticato le dita la scrittura di questo fiume di parole?

8  "Originale l'idea della metafora che umanizza il cancro" Come? Non è originale, ma soprattutto non è una metafora: nel libro il cancro umanizzato è un personaggio reale, ma cos'hai letto?

9  Lieto che ti sia piaciuto, spero che non sia anche tu uno scrittore: Se questa è una valutazione, per te un romanzo non dovrebbe superare le dieci pagine!

10  Qui sono solo capitato male: gli fosse piaciuta la fantascienza mi avrebbe dato certamente un dieci. Ovviamente senza perdersi troppo in chiacchere.

11 Anche il tuo giudizio mi ha grandemente aiutato a migliorare il romanzo, un altro tra i tanti commenti che si sarebbero potuti scrivere senza aver letto, tanto è vago. "Ah, dovevo leggerlo tutto? E io che pensavo bastasse la sinossi"

12  Ed ecco l'ultimo... che dire, costui/ei si è impegnata più della media, ma già il fatto che abbia preso quella che è semplicemente una battuta ne protagonista. "L’idea è interessante, in particolare l’idea di cancri che hanno le persone e non viceversa." per un 'idea portante del romanzo, mi ha già sconfortato. Però le braccia mi sono cadute (sì, come avrete intuito, sto digitando con la punta del naso) solo quando ho letto: "Migliorare anche, soprattutto nel prologo, la modalità di esposizione, in modo da creare la necessaria tensione. Quando Bart comunica al protagonista che ha il cancro, la notizia lascia indifferenti" se tra le cose da migliorare è compreso il fatto di non aver creato la "necessaria tensione" e il coinvolgimento emotivo nel prologo, una parte che neanche rientra filo principale della narrazione, sto messo proprio male. poi vado avanti e leggo: "Come inizio crea più tensione il capitolo successivo, Il cancro: 1 In questo capitolo la narrazione è più scorrevole. Va però anche qui migliorata la resa del concetto uomo-cancro-cancro-uomo." Certo, perché risolvere i concetti nell'arco di un'intera trama, quando si potrebbe scrivere tutto nel primo capitolo? E io, scemo, che non ci avevo pensato!

E per concludere... dai giudizi espressi ho imparato che:
  1. La mia scrittura è molto buona, ma d'altro canto fa anche un po' cagare
  2. I dialoghi sono ottimi e scorrevoli, ma se li riscrivo da capo faccio meglio
  3. Il punto di forza del romanzo è l'originalità, ma anche no. Certo è che, per essere ancora più originale, lo dovrei ambientare all'aperto.
  4. I personaggi sono ben descritti, salvo che poi sono tutti uguali
  5. l'incipit cattura, e per questo è da cestinare.

Mmmm, forse ho le idee più confuse di prima...
Forse l'unica cosa chiara in questa partecipazione, è che ho sprecato un sacco di tempo a leggere gli incipit e a pensare come valutarli in modo obiettivo. Nel caso decidessi di partecipare alla prossima edizione, mi converrà adeguarmi all'andazzo: preparare qualche commento perconfezionato e incollarlo a caso, riguardo ai voti invece...


martedì 19 maggio 2015

Bridget, autoritratto di una hippy, di Renata Morbidelli


 Ciao a tutti, mi chiamo Bridget.

Sono nata il 10 novembre del 1944 a San Francisco da genitori d’origine Irlandese. Vengo da una famiglia che verrebbe definita bizzarra. Nonostante siamo cattolici, non abbiamo perso il legame con le nostre origini celtiche e, dato che sono stata concepita il primo febbraio, i miei mi hanno dato il nome di Bridget in onore all'antica dea Brigit.

Fino a diciotto anni la mia vita è trascorsa in maniera tranquilla. Poi al primo anno d'università incontrai una persona che mi cambiò la vita. A marzo incontrai una giovane un po' più grande di me. Una trentenne che faceva da supplente alla nostra professoressa di filosofia in maternità.

Le sue lezioni si svolgevano all'aperto: spesso ci ritrovavamo in un grande spiazzo all'ombra dell'edificio, sedevamo sull'erba, sulle panchine, o dove capitava e, più che aprire i libri e leggere in maniera sterile il pensiero dei grandi pensatori, ce li presentava come se fossero stati vivi e presenti a rendere carne i loro pensieri.

Dopo gli esami di quadrimestre (ai quali l'intera classe prese voti altissimi) quando già tra alcuni di noi e Celine (questo era il suo nome) c'era una certa confidenza, ci invitò a passare alcune serate a casa sua. Tra una tazza di tè, una tisana rilassante e qualche dolce, ci raccontava delle sue esperienze, dei viaggi in India, dove aveva conosciuto una grande Maestra, dei suoi pochi, ma affascinanti, incontri con un filosofo bulgaro che era venuto a tenere conferenze anche negli Stati Uniti e della neonata filosofia della Nuova Era, soprattutto nel pensiero di una dei massimi esponenti…

Immediatamente compresi perché non si poteva parlare di queste cose a lezione e perché aveva invitato ad ascoltare queste sue esperienze solo coloro di cui si poteva fidare. Ciò che ci raccontava ed i brani che ci leggeva, anche se erano, in pratica, gli appunti di una giovane donna, trasudavano di esperienza e vissuto. Avevano carne e sangue. Ogni frase era carica di un'energia che si poteva quasi respirare, avvertire, toccare e si sentiva vibrare nell'aria.

La mia rivoluzione personale iniziò proprio lì... tra tè, tisane, biscotti e racconti, strappi e lacrime: di commozione, di dolore, di rabbia ed a volte anche di gioia. Mille domande s'affollarono tra la mente ed il cuore. Alcune trovarono una risposta nelle parole di Celine o degli altri alunni; altre stanno ancora vagando tra cuore e mente, ma una cosa l'ho capita: le dovevo andare a cercare facendo esperienza.

Passai mesi tra studio e rivoluzione personale. Poi una mattina di fine giugno, dopo aver dato il mio esame di filosofia, al quale presi A+, salutai i miei, li abbracciai e partii con una mia amica verso la libertà ed alla ricerca di me stessa.

Ho dato quell'esame per dimostrare ai miei quanto fosse proficuo studiare insieme a Celine ed alla sua classe. Me ne sono andata perché ho capito che la filosofia è efficace e porta frutti solo se fai esperienza, sulla tua pelle di quelle che, altrimenti, resterebbero solo parole imparate su un manuale.

Ho scelto di vivere all'aria aperta con gli hippy perché ho capito che la mia anima è parte integrante dell'universo fino a che un giorno (e questo è il mio desiderio) avrò trovato il mio equilibrio e la mia anima sarà in armonia con l'energia vitale dell'albero, dell'erba, dei fiori, degli animali, degli esseri umani e del vento… e per questo non c'è bisogno di aspettare di esalare il mio ultimo respiro.

Il mio spirito è in trasformazione. Sono in cammino per trovare me stessa e far danzare istinto, cuore e anima al ritmo della musica che vibra nel creato.

sabato 16 maggio 2015

Un Sauro in bicicletta: Marrubiu-Porto Palma

Bene gente, quest'anno il caldo è arrivato abbastanza presto, e dopo qualche passeggiata in terra piana, o quasi, è giunto il momento di affrontare percorsi più impegnativi e, se il fisico regge, anche più divertenti.




Circa cinquanta chilometri tra andata e ritorno... niente di trascendentale, comunque: fino a Marceddì sono una quindicina di chilometri piatti, poi arriva un tratto di altri dieci fatti di rampe brevi e con punte di pendenza fino al 12%: il dislivello totale è di circa 550 metri:
E ora, si parte!




Ecco la cara amica che dovrà sopportare sulle sue povere ruote tutta la fatica del viaggio: non la trovate sexy?


Welcome to Marceddì, far west.




Sempre Marceddì, oltre questo ponte il paesaggio cambia radicalmente, da piatta pianura ad aspra collina (da questa foto non si direbbe ma, a pedalarci su, sembrano davvero aspre).




E questo è Sant'Antonio di Santadi: ci sono più lettere nel nome che residenti. Là in fondo si inizia a salire ma la prima scalata è anche la più semplice, una rampa di qualche centinaio di metri: poco più che un cavalcavia.




Sulla cima di uno strappo duretto (si supera il 10%). L'ho fatto abbastanza tranquillo, eppure un po' di fiatone si sente, ora via di nuovo per un chilometruccio di discesa, poi attende uno strappo gemello




Da questo punto c'è salita sia dietro che davanti a me, quindi tanto vale proseguire... anche se non fino a Funtanazza, per oggi sarebbe un rischio: cioè... per arrivarci sono sicuro di arrivarci, ma chissà se riuscirei a tornare...



Vedete quel curvone quasi al centro della foto, leggermente spostato in basso a destra? Da lì parte l'ultima salita della giornata... e anche la più dura, un chilometro e mezzo al 8/9% con picchi al 12%. Sulla sinistra si intravvede la strada che continua a serpeggiare verso l'alto.



Ora sono fermo sulla curva che vi indicavo prima, sotto di me, Porto Palma. Non tira un filo di vento e il mare è calmissimo. Mi farebbe voglia di tuffarmi, se già non sapessi che l'acqua, in questo periodo, è ancora troppo fredda per i miei gusti.



E, sempre dallo stesso punto, uno scorcio del minuscolo porticciolo di Porto Palma. Poi, lentamente,  mi volto per vedere quel che mi aspetta...




Sempre caro mi fu quest'erto colle
ma ancor più caro mi sarà al momento
in cui alla cima, raggiunta, oramai doma
potrai rivolger, biciclo mio, le terga
e scivolando lieve (senza spremer mie gambe)
portarmi giù in picchiata al fondovalle




 Ed eccola qua, la cima! Più in fondo un'altra salitella sembra chiamarmi: non oggi, cara. Il biciclo scalpita fremente, ansioso di lanciarsi in discesa. Lo potrò mica tradire?




La parte più noiosa del ritorno, il lungo e piattissimo rettilineo di Luri. All'andata è stato evitato prendendo una semi-parallela, ma è piena di sconnessioni, e ora non ho voglia di ballare.




E qui in fondo, a poco più di due chilometri, casa. Non sono nemmeno stanco: con tutte queste soste per prendere foto, mi sento come se avessi fatto una passeggiata dentro paese. La prossima volta, gambe permettendo, prometto che vi porto fino a Funtanazza.

venerdì 15 maggio 2015

Il dio Pulper, di Francesca La Froscia


Il dio Pulper


Può un serial killer andarsi a rintanare a Mantova? Mi sembra di sognare... Eppure, il mio capo continua a ripetere che lo spappolatore compulsivo di capocce si trova proprio qui.

Oggi, sette settembre, giorno del mio settenario di matrimonio, anziché essere nella suite dell’hotel Elite di Capri, a festeggiare con mio marito, mi trovo a seguire le tracce di un pazzo. Sì, questo assassino è proprio folle! Ma si può? Scegliere una città settentrionale d’arte, come scarica-paturnie, invece di andarsene, che ne so, in Aspromonte!


E io, tapina di una investigatrice della polizia scientifica, che non si può permettere di dire “ci penso domani”, porto la mia sagoma indolente nei vicoli di Mantova nella speranza (vana) di rimediare notizie utili per acciuffare l’uomo Pulper. Cavoli, Mantova è proprio bella!


Ma quale potrebbe essere il nesso tra Pulper e il luogo dei Gonzaga? Boh? Certo che... se ne sapessi a pacchi di storia e di arte... mannaggia a me e a quando giocavo alla play-station invece di studiare! Mi servirebbe una metamorfosi in Sgarbi!


Idee a raccolta, please! Dunque, dove mi trovo? Sono davanti al Palazzo Te: un’autentica meraviglia! E se il tipo fosse qui dentro?

Ah, però! Solo il restauro della serliana della Loggia d’onore è venuto a costare settecentomila euro! Ma chissenefrega! Uffa, devo stanare il mostro...


Il monumento è a pianta quadrata; al centro si trova un cortile ampissimo, quadrato anch'esso, con un labirinto e con quattro entrate-uscite sui lati...
Be', come luogo per maciullare meningi, si presta! La dinamica potrebbe essere questa: ci sta un turista indeciso... non sa se attraversare o meno il labirinto... Pulper è appostato con discrezione, come un avvoltoio, in uno dei lati e ha con sé la mazza spaccacranio... all'improvviso, come un fulmine, si materializza e dà un colpo, ben tarato, al visitatore... sempre come una saetta, s'infila nel labirinto, che conosce meglio delle sue tasche, e ne esce, in un nanosecondo, per buttarsi nel varco di un altro lato... Pulper è già lontano (un tot) quando si scorge la mattanza...

Wow, tutto torna! Magari! Manca il collante...
Allora: Mantova, Gonzaga, Palazzo Te, serial killer, teste maciullate (compresa la mia, a furia di pensare) e un nesso... che non c'è manco a inventarmelo, cazzo!

Quanti vestiboli; fantastica questa sala, è tutta un graffito! Sarà un dipinto settecentesco... ma no! Sta scritto qui: “L'affresco della Caduta dei Giganti fu dipinto fra il 1532 e il 1535 e ricopre la stanza, dalle pareti al soffitto, con una rappresentazione illusionistica della battaglia tra i Giganti, che tentano di salire all'Olimpo, e Zeus”.


Ok, la materia artistica non è proprio il mio forte, ma mi riscatterò con la soluzione di questo rebus. La chiave si trova sicuramente in questa raffigurazione. Fammi leggere gli altri appunti nella bacheca:

“La Sala dei Giganti costituisce un vero e proprio unicum nella storia dell’arte moderna, poiché Giulio Romano vi propone una sperimentazione pittorica originale e ineguagliata per secoli. L'ambiente è concepito come un insieme spaziale continuo, ove l'invenzione pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente catapultato nel mito. I limiti architettonici sono dissimulati dalla pittura, che si stende senza soluzione di continuità su pareti e volta. La vicenda che viene messa in scena è quella della Caduta dei Giganti, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. I Giganti, abitanti della terra scellerati e presuntuosi, vogliono sostituirsi agli dei e, per fare ciò, tentano di conquistare il monte Olimpo. Ne consegue, pertanto, la reazione di Zeus. Egli punisce i Giganti, scatenando contro di loro la furia degli elementi, con i fulmini infallibili.”

Eureka! È il delirio di onnipotenza, che scaturisce dall'empatia di Pulper-spettatore verso cotanto scenario, a far scattare l'impulso. Il trasporto è così totale e galvanizzante da farlo sentire il dio di siffatto luogo. Questo è il tempio di dio Pulper e i turisti sono dei nemici, come i Giganti, da annientare...

Bene, fino a qui ci sono. Neppure il settemviro degli Epuloni sarebbe riuscito a snocciolare tanta roba! Ora, la vedo dura: mi tocca trovare il legame tra mazza e fulmini...

«Scusi, signora, le va di percorrere insieme il labirinto?»

Oddio! È lui!

giovedì 14 maggio 2015

La Stella d'Oro (Zolotaja Zvjezda), di Barbara Risoli. Recensione di Sauro Nieddu

Image and video hosting by TinyPicNonostante non sia esattamente un appassionato del genere, ho trovato una buona lettura in questo "La Stella d'Oro". Di che genere si tratta? Diciamo che è un rosa/storico, anzi, più che storico la mia definizione sarebbe "fanta-storico" visto che le vicende narrate offrono uno sguardo immaginario sui retroscena di vicende storiche ben definite.

Il romanzo la storia d'amore tra un'ingenua contessina italiana e un misterioso principe russo, affascinante e ambiguo, le cui strade si incrociano da prima nella gabbia dorata in cui la ragazza è nata e vissuta fino a quel momento e in seguito, in maniera definitiva, dopo la tragedia in cui questa gabbia è andata a pezzi, crollata sotto le bordate della storia e nella fattispecie, della prima guerra mondiale.

Inizia qui un percorso che porterà i due attraverso l'europa fino alla Russia della Rivoluzione bolscevica. Il percorso è però anche quello di crescita della contessina Maria Frangini (e qui si potrebbe considerare, in parte, anche un romanzo di formazione), inizialmente una ragazza giovane e ingenua, che finisce col diventare una donna fiera e indipendente, consapevole di se stessa ma anche dell'intricata realtà del mondo circostante.

La scrittura non è ricchissima ma precisa, con qualche puntata verso l'alto non sempre riuscitissima, ma allo stesso tempo nemmeno mal riuscita da risultare sgradevole. Tutto sommato la lettura che ne risulta è semplice e di una gradevole scorrevolezza. In ogni caso perfettamente adattata alla storia che racconta.

Nel complesso, un romanzo di cui consiglierei assolutamente la lettura agli appassionati dal genere, ma comunque adatto anche a lettori più "mainstream". In virtù del periodo in cui è ambientato e della vicinanza dei protagonisti ai personaggi storici che hanno plasmato quell'epoca, riesce a offrire spunti di riflessione interessanti sulla storia del novecento e perfino, nella conclusione della vicenda dei protagonisti, a farne intuire una chiave di lettura metaforica e personale.

mercoledì 13 maggio 2015

Il tronco di Davide (The Branch, 1984), di Mike Resnick

Michael Diamond Resnick (Chicago, 5 marzo 1942) è uno scrittore amatissimo dal pubblico d’oltreoceano, abbastanza tradotto anche qui in Italia. Autore piuttosto prolifico, attivo dall’inizio degli anni sessanta, ha prodotto oltre cinquanta romanzi di fantascienza, oltre a numerosissimi racconti, un corpo notevole di racconti per adulti, scritti sotto pseudonimo soprattutto nella prima parte della sua carriera.Da notare che detiene il record assoluto di nomination al premio Hugo, trentasei, con ben cinque vittorie (e qui ricordo che l’Hugo è un premio assegnato da giuria popolare). Essendo vincitore di altri numerosi premi, è tra gli scrittori di fantascienza che più ne hanno raccolti. I suoi tratti caratteristici più noti sono l'amore per l’Africa e la sua conoscenza profonda di questo continente, da cui ha tratto personaggi, spunti e ambientazioni, e l’umorismo che pervade la maggior parte delle sue opere.

Il tronco di Davide è un romanzo che ha però altri punti di riferimento. Non che manchi di umorismo, ma in questo caso è meno diretto del solito, affidato soprattutto a una certa leggerezza (che non significa mancanza di profondità) nell’approccio a temi piuttosto importanti. Per intenderci, è un Romanzo che parla di potere, della dicotomia ragione-istinto affrontata come rapporto dell’uomo con la religione.

Il libro, che si apre con un breve prologo in cui viene descritta la situazione storica in cui si svolge la vicenda, narra l’intreccio tra la storia di Solomon Moody Moore, capo assoluto di una potente organizzazione criminale di stampo mafioso, e Jeremiah B. piccolo criminale la cui unica abilità pare quella di truffare il prossimo.

I due caratteri non possono essere più diversi tra loro. Moore è un uomo d’affari sobrio, razionale e intelligente, il cui unico vizio è l’esercizio del potere fine a se stesso. Jeremiah B. non possiede grandi doti intellettive, ed è un edonista, incapace di vedere a un palmo dal naso, che vive alla giornata. Ma Jeremiah B. è anche qualcos’altro. Qualcosa che lui stesso ignora di essere.

I due s’incontrano per la prima volta in un luna park ambulante; Solomon è lì per imporre il pagamento del pizzo ai proprietari. Jeremiah approfitta dell’occasione per mendicare qualche soldo (come vedete la motivazione di fondo dei due è la stessa, lo stile completamente diverso).

Il loro primo incontro è tutt’altro che morbido. Jeremiah chiede l’elemosina fingendosi cieco e Solomon Moore lo mette duramente alla prova per assicurarsi che veramente lo sia. Il boss ne esce ingannato e il mendicante pesto ma vincitore. Questa situazione pare ripetersi ogni volta che i due hanno a che fare l’uno con l’altro. Ma mentre la storia procede, il gioco inizia a cambiare, la posizione dell’ex mendicante si rafforza mentre il boss va perdendo gradualmente la sua influenza, fino a un finale che sorprende, ma che visto a posteriori appare assolutamente corretto.

Ho trascurato, in questa rapida spiegazione, l’elemento religioso, che invece è portante nell’opera; nel corso del romanzo entra in gioco il dio degli ebrei che, pur non comparendo direttamente come personaggio se non alla fine, aleggia sul racconto tramite la presenza del suo messia. È proprio Solomon Moore a contribuire alla manifestazione del messia, fatto che sarà direttamente responsabile della sua rovina negli “affari”, e contro cui Solomon lotterà con tutte le sue forze fino alla fine.

Non aspettatevi però un messia sul genere del Gesù cristiano (che del resto non è mai stato accettato come tale dalla religione ebraica) si tratterà di un messia sorprendente, ma allo stesso tempo, nelle motivazioni addotte da Resnick, perfettamente plausibile, che incarna alla perfezione l’irrazionalità dello spirito religioso contrapponendola alla razionalità di Solomon Moore.

Una delle situazioni che mi colpirono di questo romanzo, alla prima lettura, fu che entrambi i protagonisti siano essenzialmente malvagi ma, nonostante ciò, ricchi di sfaccettature umane in cui è facile riconoscersi. Questa ricchezza dei personaggi, permettendo l’immedesimazione, fa sì che il romanzo non si blocchi a un livello troppo cerebrale ma che si dipani in modo scorrevole. La curiosità verso il carattere dei protagonisti basta a trasportare agevolmente il lettore dalla prima all’ultima pagina.

L’altra, a mio avviso ancor più importante, visto che ha fatto nascere in me una certa pulsione emulativa, è che si tratta di un libro, come ho già detto, piuttosto lieve alla lettura; Resnick ha una tale capacità di veicolare il significato alla storia, che in questo romanzo in particolare (ma anche in altre opere), raramente ha bisogno di considerazioni estemporanee per fornire spiegazioni. La storia è il significato. Il significato è la storia. Esattamente come avviene nelle fiabe o nelle parabole.

Questo modo di intendere la letteratura, che richiama alla fiaba e alla leggenda, è una delle travi portanti di tutta la narrativa di Resnick. È anche il motivo per cui mi sono trovato in difficoltà a scrivere questo breve invito alla lettura: credo parlando troppo esplicitamente dei motivi per cui ritengo questo romanzo un ottimo passatempo intellettuale, avrei finito anche per raccontare alcuni punti essenziali della trama guastandovene la lettura.

Spero comunque di essere riuscito a incuriosirvi a sufficienza da indurvi alla lettura.


martedì 12 maggio 2015

Il sogno lento, di Sauro Nieddu



Il sogno lento


Ho fatto un sogno particolare, questa notte.
Ho sognato di andare con un vecchio amico, un certo M., al paese vicino. Non siamo andati in macchina, benché entrambi avessimo la patente, né coi mezzi pubblici, eravamo a piedi. Una passeggiata di quattro chilometri come ai vecchi tempi, quando nessuno era provvisto di altri mezzi di locomozione che non fossero le gambe e nel paese in questione si trovava l’unico distributore automatico di sigarette della zona.

Nel sogno però ci andavamo per altri motivi, soprattuttoa fare acquisti, ma secondariamente a fare un po’ di baldoria. Nella realtà, a dire il vero, quello non sarebbe il posto ideale per nessuna delle due cose, ma si sa come sono i sogni...

Dopo essere stati in un paio di negozi, ed aver sostato, sulla via del rientro, nel bar del paese a bere qualche birra (non entro nei particolari perché questa parte del sogno è piuttosto confusa, oltre che poco rilevante) decidemmo di metterci in marcia.

Ed ecco che, appena passato il semaforo che segna la fine del paesino, vedo spuntare da una strada laterale la mia tartaruga, Barrosa¹. Barrosa è una tartaruga molto fedele e di solito quando esco di casa mi segue e mi accompagna ovunque stia andando. Ovviamente ciò vale solo all’interno del sogno.

Fatto sta che appena ci vede, attraversa la strada e si accoda a noi. Devo rallentare notevolmente il passo per permettere alla mia amica di seguirci agevolmente. M. mi chiede cosa ci faccia la tartaruga da quelle parti. Io gli rispondo che non ne ho idea: credevo di aver chiuso bene il cancello e che perciò fosse rimasta a casa ad aspettarmi.

Qualche centinaio di metri dopo, vediamo un'altra tartaruga sbucare dalla stessa viuzza e accodarsi al nostro piccolo corteo. Così Barrosa ha trovato un nuovo amico. Quest’amico è piuttosto grosso, pesante e indisciplinato. Ha la tendenza a camminare al centro della strada e devo rimetterlo sul ciglio una mezza dozzina di volte per salvarlo dalle macchine in arrivo. Ha di buono che cammina in fretta, per essere una tartaruga: se fosse per lui potremmo tenere quasi un andatura umana. Il sogno si conclude mentre siamo ancora in cammino. Colpa di un grosso camion che fa manovra sotto la finestra della mia stanza da letto.

Potrebbe sembrare un sogno come tanti altri, e per molti versi lo era. In realtà conteneva due grosse stranezze. Una si era manifestata all’interno del sogno stesso: non riuscivo a capacitarmi di come avesse fatto Barrosa a seguirci così in fretta da avere pure il tempo di farsi un giro per i fatti suoi e stringere amicizia con l’altra tartaruga. Ero sicurissimo che quando eravamo usciti con M. si trovasse ancora nel cortile di casa.
L’altra stranezza era che, dopo essermi svegliato, avevo una forte sensazione di déjà-vu, come se non si trattasse di un sogno ma di un ricordo, oppure di un sogno in cui ricordavo qualcosa di realmente accaduto.

Nel pomeriggio stesso di quel giorno il caso, o più probabilmente una semplice coincidenza, volle che incrociassi M. mentre rientravo dal tabacchino. Non lo vedevo da quasi due anni. Ovviamente non persi l’occasione:
‒ Ciao Mirko, lo sai che proprio stanotte ti ho sognato? Eravamo sulla strada per...

M. mi interruppe dopo la prima parte del sogno. Disse che glielo avevo già raccontato anni prima. Ecco spiegata la sensazione di deja vu: si trattava di un remake. Quando però gli raccontai la seconda parte, quella delle tartarughe, fu abbastanza sicuro che non comparisse nel sogno che avevo dimenticato di avergli raccontato

Chiaccherammo per una mezz’ora, poi lui si mi disse di avere un appuntamento e ci salutammo. Prima di congedarci, però, ebbe un illuminazione che dava un senso compiuto a quei sogni, e soprattutto all’intervallo di tempo intercorso tra i due.
‒ Hai dovuto aspettare tutto questo tempo tra un sogno e l’altro ‒ spiegò ‒ perché altrimenti la tartaruga, al suo passo, non avrebbe fatto a tempo a raggiungerci e l’avresti persa.

Sul momento la sua risposta mi parve buona, ma mentre rientravo a casa da solo mi resi conto che la spiegazione non era sufficiente: per quanto lenta, Barrosa avrebbe impiegato tutt’al più una giornata completa per compiere quel tragitto, non certo anni.

Soltanto se, come è convinzione di qualcuno, il tempo nei sogni non scorre come nella vita reale, la risposta di M. poteva avere un senso. Eppure non ero convinto. La calda e piacevole sensazione evocata dal sogno venne sopraffatta da un’altra molto più sgradevole. Ne ebbi la giornata rovinata. Non riuscivo a togliermi dalla mente l’idea che non fosse il tempo del sogno a essere sfasato, ma quello che stavo vivendo dopo il risveglio e quindi, gli anni intercorsi tra l'uno e l'altro, un illusione.




1 In sardo, letteralmente: “mascelluta” ma nell’uso più comune è usato col significato di “testarda”

domenica 10 maggio 2015

Incubo di uno spazio eterno, di Marina Atzori



Incubo di uno spazio eterno


Una stanza, un pavimento lucido, nessuna sedia, un paio di quadri su un’unica parete, quella alla mia destra. Uno dei due dondola leggero, a sostenerlo l’impercettibile forza di un unico chiodo piegato su se stesso. Non riesco a distinguerne il soggetto, ma soltanto il bordo della cornice logorata dal tempo. Alcuni pezzi di vetro sparsi sull’antro della porta d’ingresso.

E poi lui, il vuoto, l’angoscia profonda che sale sui miei piedi affaticati. Ho appena ricevuto uno schiaffo dalla vita, di quelli da cui non ti rialzi, di quelli che a sfiorarti la pelle ancora brucia, di quelli che non ti scordi. Quel cumulo di schegge per terra forse domani o dopo domani diventerà polvere. Il silenzio fluttua tra i riflessi della luna, attraverso la finestra. I tagli sono sotto la pelle, stroncano l’indifferenza che mi hai lasciato. Mi sento vuota, come una latta, presa a calci per strada, rotolo in questa bolla di solitudine.

Questa volta non l’ho cercata, è arrivata come quando arriva qualcosa che non ti aspetti e ti mette in ginocchio. Non sono andata a vendere l’anima eppure, non sento più di possederne una. Chi ha portato via i miei ricordi, le mie fotografie? Questo vuoto nefasto desidera essere rabboccato, ed io lo accontento, non ho più nulla. Persino le mani si è preso, i piedi sono feriti da un camminare lento e pericoloso, che ora si è fermato del tutto.

Sui dipinti non vi sono ali, non compare il cielo, non brillano stelle, il vuoto tuona nel cuore di questa notte. Appoggio il mio sguardo sull’unica tela ancora integra, contiene quello scritto. Quelle parole sono state dure, una accanto all’altra, hanno distrutto tutto. Sul quel pezzo di carta, con quella penna senza tappo, che pareva non servire più a niente, hai scritto tutta la tua lontananza. Adesso sono sola, il vuoto riempie questa stanza di foglie secche, trattiene il mio sguardo su questo soffitto.

La lampadina appesa a un filo elettrico di fortuna si accende ad intermittenza, ed io resto convinta di non volere un’esistenza diversa. Io desidero che questo spazio fatto di nulla ti raggiunga, si annidi nel disordine della tua scrivania, sui muri della tua casa nuova, piena di cose solo tue e di qualcun altro, non più mie, nei vicoli delle tue scorciatoie mentre corri da lei, tra le luci spente a farti conoscere il deserto e il miraggio di un sorso d’acqua. Ed io riderò alle tue spalle, mentre sentirai il brusio del mio respiro. Intanto vivo l’incubo di questi spazi eterni, l’impotenza di questi maledetti angoli di cui sono ormai l’unica padrona.