domenica 10 maggio 2015

Incubo di uno spazio eterno, di Marina Atzori



Incubo di uno spazio eterno


Una stanza, un pavimento lucido, nessuna sedia, un paio di quadri su un’unica parete, quella alla mia destra. Uno dei due dondola leggero, a sostenerlo l’impercettibile forza di un unico chiodo piegato su se stesso. Non riesco a distinguerne il soggetto, ma soltanto il bordo della cornice logorata dal tempo. Alcuni pezzi di vetro sparsi sull’antro della porta d’ingresso.

E poi lui, il vuoto, l’angoscia profonda che sale sui miei piedi affaticati. Ho appena ricevuto uno schiaffo dalla vita, di quelli da cui non ti rialzi, di quelli che a sfiorarti la pelle ancora brucia, di quelli che non ti scordi. Quel cumulo di schegge per terra forse domani o dopo domani diventerà polvere. Il silenzio fluttua tra i riflessi della luna, attraverso la finestra. I tagli sono sotto la pelle, stroncano l’indifferenza che mi hai lasciato. Mi sento vuota, come una latta, presa a calci per strada, rotolo in questa bolla di solitudine.

Questa volta non l’ho cercata, è arrivata come quando arriva qualcosa che non ti aspetti e ti mette in ginocchio. Non sono andata a vendere l’anima eppure, non sento più di possederne una. Chi ha portato via i miei ricordi, le mie fotografie? Questo vuoto nefasto desidera essere rabboccato, ed io lo accontento, non ho più nulla. Persino le mani si è preso, i piedi sono feriti da un camminare lento e pericoloso, che ora si è fermato del tutto.

Sui dipinti non vi sono ali, non compare il cielo, non brillano stelle, il vuoto tuona nel cuore di questa notte. Appoggio il mio sguardo sull’unica tela ancora integra, contiene quello scritto. Quelle parole sono state dure, una accanto all’altra, hanno distrutto tutto. Sul quel pezzo di carta, con quella penna senza tappo, che pareva non servire più a niente, hai scritto tutta la tua lontananza. Adesso sono sola, il vuoto riempie questa stanza di foglie secche, trattiene il mio sguardo su questo soffitto.

La lampadina appesa a un filo elettrico di fortuna si accende ad intermittenza, ed io resto convinta di non volere un’esistenza diversa. Io desidero che questo spazio fatto di nulla ti raggiunga, si annidi nel disordine della tua scrivania, sui muri della tua casa nuova, piena di cose solo tue e di qualcun altro, non più mie, nei vicoli delle tue scorciatoie mentre corri da lei, tra le luci spente a farti conoscere il deserto e il miraggio di un sorso d’acqua. Ed io riderò alle tue spalle, mentre sentirai il brusio del mio respiro. Intanto vivo l’incubo di questi spazi eterni, l’impotenza di questi maledetti angoli di cui sono ormai l’unica padrona.

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