giovedì 30 aprile 2015

Libri: Lettori, i nuovi testimoni di Geova

di Sauro Nieddu

 Difficile spiegarsi il successo - almeno tra i lettori - delle campagne stile  #ioleggoperché




Strano come l'iniziativa #ioleggoperché abbia  ottenuto questo straordinario successo tra i lettori, o forse neanche così strano; dipende dal punto di vista con cui si guarda la questione e dal valore che si da alla lettura.

Ovviamente dal punto di vista di chi l'ha lanciata, l'AIE - Associazione Italiana Editori - tutta questa vicenda ha un senso ben preciso. Dopotutto vendere libri è il mestiere degli editori. Per lo stesso motivo si può capire l'adesione a questo tipo di iniziativa da parte degli scrittori, alla disperata ricerca di un pubblico che li degni di un minimo di considerazione.

Più difficile capire il motivo per cui quest'appello venga lanciato dai vari personaggi televisivi e/o attori di fiction da prima serata. Direi che dal loro punto di vista all'apparenza sia autolesionista. Chi rientra a casa dopo una massacrante giornata di lavoro, generalmente o si rilassa davanti alla Tv oppure si rilassa davanti a un bel libro. Difficilmente un poveraccio provato dal logorio della vita moderna riesce a trovare il tempo e la concentrazione per entrambe le cose: farsi figo con un'immagine culturalmente impegnata vale il rischio di perdere il proprio pubblico? Al loro posto farei molta attenzione, coi tempi che corrono, se si perde il lavoro ci sono ottime possibilità di restare a lungo disoccupati.

Ancora più difficile capire perché un comune cittadino-lettore, debba impegarsi tanto per convincere alla lettura chi invece non è minimamente interessato a questa pratica arcana.

Ci sono due cose che mi hanno colpito di questa messa in scena. La prima riguarda i dati dell'Istat sui lettori. Se è vero che solo il 40% e spiccioli degli italiani ha letto almeno un libro nell'ultimo anno e che i lettori forti, cioè chi ne ha letto almeno dodici, poco più del 14%. Com'è che sui social sembrava che in Italia il 150% della popolazione non possa fare a meno dei libri? Misteri della matematica.

La seconda  riguarda i testimoni di Geova. È cosa nota che costoro, nella considerazione popolare, non siano in assoluto tra le categorie più amate, al punto che molti si dotano dell'apposita immaginetta da apporre accanto al campanello per scongiurarne lo squillo molesto. Perché questo astio per i poveri testimoni? Branco di assassini? Ladri? Delinquenti di ogni sorta? Macché, fanno proselitismo, cioè cercano di portare la gente dalla loro parte, nient'altro. Questo è sufficiente a creare l'avversione generalizzata.

Ora, non si rendono conto questi lettori, che ad appoggiare #ioleggoperché si rischia di fare la stessa fine? Cosa vogliono, i lettori, ridursi a diventare una minoranza disprezzata e discriminata a causa della loro pesante insistenza? In realtà, amici lettori, che vi frega se il vostro vicino di casa, il vostro collega in ufficio, chi vi cambia le gomme della macchina, legge un libro, o dieci, o cento all'anno? Niente, per cui fatevi gli affari vostri, leggete se ne avete voglia, non leggete se non vi va, ma non state a scassare i maroni a chi non ha nessun interesse verso la letteratura. Anche perché a un certo punto ci potrebbe essere una reazione.

Nel migliore dei casi i non-lettori potrebbero organizzarsi nella contro-campagna #iononleggoperché, e dato che loro sono la maggioranza, per voi sarebbero guai grossi. Io stesso che pure qualche libro lo leggo non farei fatica a trovare delle ottime argomentazioni contro la lettura.

#iononleggoperché... Preferisco il sesso

#iononleggoperché... Se gli togliessi il libro, il tavolo tornerebbe a ballare

#iononleggoperché... Non voglio fare la fine di Leopardi (a scuola mi hanno detto che è diventato gobbo, semi-cieco e storpio a forza di star chino sui libri)

#iononleggoperché... meglio stare all'aria aperta

Nel peggiore dei casi invece si potrebbe approdare allo scenario apocalittico immaginato da Bradbury in Fahrenheit 451.

 Come, non lo hai letto? Ma dai, che ignorante, è un libro fondamentale! Non capisco come abbia potuto vivere senza leggerlo. Figurati che l'ho letto la prima volta a dodici anni e da allora lo rileggo almeno una volta all'anno. Niente scuse, se vuoi te lo presto io. Basta che ti lavi bene le mani prima di aprirlo e non mi faccia le orecchie alle pagine. Sai, è un edizione a cui tengo molto perché...



martedì 28 aprile 2015

Cristalli di ghiaccio, di Irma Panova Maino




Cristalli di ghiaccio



“Che dice Capitano, un altro poveraccio morto dal freddo?” L’uomo chiamato in causa si strinse nel cappotto provando un brivido gelido e non tanto per la temperatura polare, quanto per l’ennesimo corpo rinvenuto durante quella settimana, inspiegabilmente deceduto a causa di un unico colpo inferto al petto. Un buco scavato fin dentro nel ventricolo, che aveva paralizzato il cuore interrompendo qualsiasi funzione vitale e, dai primi rilevamenti, le uniche tracce utili erano state dei cristalli ancora ghiacciati rinvenuti all’interno di quel tunnel letale, come se l’arma fosse stata un punteruolo gelato oppure un pezzo di stalattite strappata da qualche cornicione.

Il Capitano alzò lo sguardo verso il proprio Maresciallo, scuotendo la testa sconsolato.
“Queste morti mi stanno facendo perdere il sonno. Nessun testimone, nessuna traccia utile, niente di niente e non so più a quale santo votarmi.”

L’altro non rispose, non aveva nulla da aggiungere e in quella fredda mattina di febbraio, risparmiare sul fiato aiutava a trattenere il calore corporeo. Tuttavia un giornalista zelante non si lasciò sfuggire l’occasione di sorprendere il titolare del caso da solo, senza avere l’immancabile codazzo di cronisti, fotografi, reporter e cameramen al seguito.

“Capitano? Capitano una domanda!”
L’altro sbuffò producendo una nuvola di condensa, che parve cristallizzarsi prima ancora di riuscire a disperdersi nell’aria.
“Merini, fa un freddo cane questa mattina, non possiamo rimandare?”
Il giornalista sorrise allungando il proprio palmare sotto al naso dell’ufficiale. “Capitano e quando mi ricapita più di beccarla da solo?”
Il Maresciallo, felice di non essere lui quello sottoposto alle domande della stampa, sgattaiolò verso la macchina di servizio, sfregandosi le mani e battendo i piedi prima di entravi. Al Capitano non rimase altro da fare che sorridere di buon grado, in attesa che il giornalista facesse il suo lavoro.

“Avanti Merini, mi faccia le sue domande e cerchi di sbrigarsi.”
“Ecco la prima Capitano, questo è il quarto morto in una settimana, si tratta forse di una vittima di un omicida seriale?”
L’ufficiale squadrò l’uomo con un certo astio, non sapendo se mandarlo subito a quel paese o trattenersi il tempo necessario per cercare di confutare certe ipotesi: scatenare il panico non era nell’interesse della comunità.
“Non userei certi termini, Merini. Parlare di serial killer è eccessivo.”
“Tuttavia non può negare che quattro cadaveri siano veramente tanti. Due uomini, una donna, un ragazzo… tutte persone diverse fra di loro, senza nulla che parrebbe accomunarle… a me sembra che…”

L’ufficiale lo interruppe, prima che le divagazioni prendessero una piega imbarazzante.
“Senta Merini, se lei ne sa più di me, allora sono io che dovrei fare le domande a lei e non viceversa. Nulla lascia supporre che si tratti di un maniaco o roba del genere, quindi non scriva fesserie e non faccia congetture controproducenti!”
Il giornalista non perse il proprio sorriso, ma negli occhi ogni traccia di divertimento si spense.
“Capitano, ci sono quattro morti che chiedono giustizia e la cittadinanza ha il diritto di sapere se può aggirarsi liberamente dopo le cinque del pomeriggio per le strade!”
“E chi glielo impedisce?” borbottò il graduato arrivando in prossimità della macchina, ma prima che riuscisse a salire a bordo, il giornalista gli pose ancora una domanda:
“Sono stati tutti uccisi con qualcosa di affilato, no? E lei questo come lo definisce?”

Per un momento i due uomini si guardarono negli occhi, ognuno cercando di decifrare quanto ne sapesse l’altro, alla fine l’ufficiale si produsse in un sorriso tirato.
“Maresciallo, porti il signor Merini in caserma, direi che è una persona informata sui fatti e forse è in grado di far luce su quello che per noi è un caso inspiegabile.”
“Ma lei non può…” protestò subito il giornalista.
“Non posso fare cosa? Interrogarla? Vogliamo vedere?”
“Senta Capitano, mettiamoci d’accordo, io le dirò quello che so e lei mi dirà quello che può.”
L’ufficiale si lasciò sfuggire una risata alquanto amara.
“Quello che io posso dire? Andiamo Merini, ha voglia di scherzare! Le sue fonti sono migliori delle mie, a quanto pare. Io ho quattro morti che aspettano e nessun colpevole da portare ai miei superiori. Ho un’arma del delitto che pare inesistente e nessuna spiegazione valida.”
“Il ghiaccio Capitano, il ghiaccio. Sono stati uccisi con qualcosa di gelato, anche l’ultimo, non è vero?”

L’ufficiale si appoggiò stancamente alla macchina, facendo cenno al Maresciallo di rientrare nel veicolo, come se la conversazione in corso dovesse rimanere privata. Guardò il palmare in mano al giornalista e questi, intuendo le intenzioni dell’altro, spense l’apparecchio e lo ripose in tasca.
“Merini cosa sa veramente di questo caso?”
L’altro valutò per un istante che cosa rispondere, poi con un sospiro fece un cenno con la testa verso il punto in cui la scientifica stava ancora facendo i rilevamenti intorno al cadavere.
“Anche quello è morto pugnalato al cuore, no?”
“Sì Merini, anche quello. Allora cosa sa?”
Il giornalista tornò a fissare lo sguardo in quello del carabiniere e finalmente parvero intendersi.
“Conosco un barbone, che a sua volta conosce un altro barbone, che dice di aver visto qualcosa la sera dell’uccisione del ragazzo, quello uscito dall’università.”
“La seconda vittima?”
“Sì, quella. L’amico del mio amico dice di aver visto una strana cosa, una forma tutta bianca, aggirarsi per quel tratto di strada, ma nevicava troppo forte per capire esattamente che cosa fosse.”
L’ufficiale parve trasalire.
“Come sarebbe a dire una forma bianca? Una forma di cosa? Di formaggio?”

La tensione nella voce era palpabile, così come l’improvviso nervosismo del Capitano. Merini istintivamente fece un passo indietro, alzando le mani come per volersi difendere da un’eventuale accusa.
“Ehi, non sono io che sto dicendo questo! Nemmeno io ho capito che cosa voglia dire questa storia della forma bianca… oltretutto la mia fonte nell’Istituto di Medicina Legale mi ha confermato che le uniche tracce trovate, nell’unica ferita rilevata sui cadaveri, presentava residui di acqua piovana e una certa percentuale del pulviscolo presente nell’atmosfera. E questo fa pensare ad un’arma fatta con del ghiaccio. Lo so che sembra assurdo, ma sono giunti tutti alla stessa conclusione.”
Il Capitano sbuffò risentito.
“A qualcuno di quelli del laboratorio metto le manette ed un bavaglio! Va bene… e quindi? Questa forma bianca che forma ha?”

Il giornalista sventolò le mani come a voler cercare le parole adatte, ma non trovandole, alla fine sospirò di nuovo scuotendo la testa.
“Non lo so… non ho ben capito quello che ha tentato di dirmi il mio amico e credo che nemmeno lui abbia capito bene che cosa intendesse dire il barbone di sua conoscenza, ma sembra quasi che stiamo parlando del classico fantasma con un lenzuolo.”
Il Capitano sgranò leggermente gli occhi ed un lieve sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra.
“Un fantasma con lenzuolo? Come quello dei castelli scozzesi con tanto di catene? Ma andiamo Merini, non crederà veramente ad una panzana del genere?”
“Non so cosa credere Capitano, ma tutto questo è strano, non trova? Sono arrivato presto sul posto, questa mattina, ho visto anch’io che non c’erano impronte intorno al cadavere…”
“Non significa nulla, ha nevicato parecchio nelle ultime ore, qualsiasi traccia potrebbe essere stata seppellita sotto altri cumuli di neve!”

Tuttavia, proprio mentre lo diceva, il Capitano parve dubitare delle proprie parole e istintivamente lo sguardo corse verso il cadavere che veniva issato in quel momento sulla barella, per essere portato via da un’ambulanza in attesa.
Per quanto assurdo potesse sembrare, anche lui aveva avuto l’impressione che non vi fossero impronte intorno al cadavere, anche se queste avrebbero potuto essere nascoste sotto altri strati di neve fresca. E se mancavano delle impronte intorno al morto, allora cosa lo aveva ucciso? Un fantasma con un lenzuolo bianco, armato di un punteruolo fatto con il ghiaccio? Scosse la testa senza nemmeno rendersi conto del gesto. Più ci pensava e più gli sembrava verosimile come ipotesi, ma era certo che nessuno avrebbe creduto ad una teoria del genere.


* * * * *


Fa freddo in questo immenso mondo candido e ghiacciato. Fa freddo e sento le estremità rigide, totalmente inutili. Non so nemmeno io perché mi trovo in questo stato, perché sono stato costretto in questa immobilità, rattrappito dentro a questo involucro.


Non ricordo nulla di ciò che è stato, nulla di quello che ho vissuto, provato, assaporato… sento la mia anima congelata alla stessa stregua delle mani o dei piedi. Vorrei poter dire che la mia vita sia servita a qualcosa, ma non ricordo nulla. Loro sono vivi, sono tutti vivi e questa certezza mi divora, mi strazia, rende la mia consapevolezza del mondo un luogo orribile in cui condividere il mio orrore. Sento l’odio pervadere le mie vene inutili, riempirle con dell’acido astioso, dando vitalità a un corpo che non esiste. Loro mi guardano, mi deridono, mi girano intorno con le loro faccette insignificanti. Mi toccano, palpeggiano senza alcun riguardo per i miei sensi, i miei desideri. Sono invadenti, non si curano del male che potrebbero farmi, mi rimodellano pensando solo al proprio divertimento, alla gioia dei loro figli, piccoli vandali in erba. L’odio è il carburante che porta energia nelle mie forme, l’odio corroborante che fa smuovere il mio piccolo universo gelato. Vedo le altre vite scorrermi intorno e non posso interagire come vorrei, non posso comunicare… posso solo uccidere…


 * * * * *


Il bambino guardò fuori dalla finestra. La sua camera si affacciava proprio sul giardino interno, dandogli la gioia di potersi godere la neve attraverso i vetri. La neve e quelle costruzioni fatte con mamma e papà, l’igloo, il pupazzo… Per un momento rimase immobile a guardare quello spazio immacolato, delimitato dalla recinzione che circondava la proprietà, poi si agitò così all’improvviso sulla sedia da doversi afferrare al bordo della scrivania per non cadere.
“Mamma! Mamma, vieni a vedere! Il pupazzo di neve è di nuovo sparito!”

Il signore della svastica (The Iron Dream, 1972), di Norman Spinrad

Norman Richard Spinrad (New York, 1940) definisce se stesso come anarchico e sindacalista ancor prima che come scrittore. Queste auto-definizioni dovrebbero iniziare a dare una misura del personaggio. Ma per dare qualche altra idea su che razza di tipo sia questo Spinrad, posso aggiungere anche che molti dei suoi romanzi ebbero, e alcuni anno tutt’ora, notevoli problemi a trovare un editore a causa dei loro contenuti fortemente politici, che la pubblicazione di Jack Barron e l’eternità (Bug Jack Barron, 1969) gli causò una pubblica denuncia al parlamento inglese, e che il romanzo che vi consiglio oggi, Il signore della svastica, fu per ben otto anni bandito dalla Germania.

Il signore della svastica, come del resto tutte le opere di Spinrad, presenta numerosi elementi originali, a partire dal fatto che non si pone come un romanzo dello stesso Spinrad bensì come “Norman Spinrad presenta: IL SIGNORE DELLA SVASTICA, Romanzo di Adolf Hitler”

Il romanzo è strutturato in tre parti. La prima, brevissima, che fornisce la chiave di lettura, contiene una breve biografia dell’autore e qualche nota pubblicitaria dell’editore. Qui veniamo a sapere che Hitler, dopo una breve esperienza di militante politico in Germania, nel 1919 si trasferì negli USA intraprendendo la carriera prima di illustratore e poi di scrittore di fantascienza.

La seconda parte, che poi è il romanzo vero e proprio, essenzialmente racconta in chiave fantastica l’ascesa del nazismo e lo svolgimento della seconda guerra mondiale quale sarebbe dovuta essere secondo la fantasia dell’autore (Hitler), senza cioè l’intervento nel conflitto degli Stati Uniti, in un mondo post-atomico in cui il comunismo di stampo sovietico ha preso il sopravvento all'interno dell'europa (sottintendendo in questo modo che nella nostra realtà, lo sviluppo delle dittature nazi-fasciste abbia funto da freno a tale ascesa).

La terza parte, attribuita al critico letterario Homer Whipple e scritta qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo hitleriano (per la precisione, il romanzo fu pubblicato nel ’54, postuma di un anno rispetto all’autore, mentre la postfazione sarebbe del ’59) , è un analisi delle qualità, ma soprattutto dei limiti, dell’opera di Hitler, e dei motivi del successo da essa ottenuto presso il grande pubblico.

Il libro contiene una quantità di spunti e di implicazioni notevole. Innanzitutto può essere letto come un’ucronia (una storia alternativa del nazismo e della seconda guerra mondiale) all’interno di un'altra ucronia (cioè un mondo in cui Hitler non ascese al potere e in cui non avvenne la seconda guerra mondiale).

C’è anche, nel successo attribuito al romanzo fascistoide di Hitler, una pesante, anche se sottile, critica rivolta a una certa componente della letteratura fantascientifica dei primordi, e per traslazione, a tutta una parte della società americana dell’epoca.

Nella parte conclusiva, inoltre, nelle considerazioni di Whipple, Spinrad fa una pungente satira dell’incapacità delle critica letteraria (ma anche, cosa assai più importante, degli storici) di andare oltre il fatto compiuto. Incapacità questa che rende inetti, allo stesso modo, ad analizzare con lucidità gli avvenimenti del presente e di comprenderne le implicazioni. Vorrei segnalare anche, nella parte iniziale, l’elenco di titoli degli altri romanzi di fantascienza di Hitler, veramente da ridere.

Riguardo al romanzo vero e proprio, oltre alla trama, che come ho già detto racconta le fantasie di potenza di Hitler, non c’è molto da dire. È ossessivo, mal scritto, stupido nei presupposti e nello svolgimento, intriso fino al midollo di pregiudizio genetico e razziale. Del resto, come credo sappiate tutti, Hitler non è mai stato considerato un genio della letteratura, nemmeno dai suoi ammiratori più devoti.

Allora perché leggerlo? Si parla tanto della sospensione dell’incredulità necessaria (e più che mai nel genere fantastico) alla fruizione di un opera letteraria di fantasia. Ebbene, non è questo che Spinrad chiede ai suoi lettori, semmai esattamente i contrario. Questo romanzo, cioè, diventa godibile solo quando il lettore tenga il distacco più completo dalle vicende narrate, ricordando sempre che ciò che sta leggendo è opera di un certo Adolf Hitler, e riportando all’immagine dell’autore ogni goffaggine descrittiva, ogni imprecisione narrativa, l’estrema ripetitività del linguaggio. Si tratta di un godimento intellettuale, un gioco continuo fatto di citazioni, richiami alla Storia, ironia sul significato psicologico del nazismo/fascismo e sulle motivazioni profonde che ne hanno decretato il successo (e qui segnalo che col termine fascismo, riferito alla letteratura di Spinrad, va intesa una forma mentis più che il movimento politico in sé).

Vi parrà che a questo punto abbia raccontato sin troppo di questo romanzo, ma se deciderete di leggerlo, e ve lo consiglio caldamente, vi accorgerete che ci sono un bel po’ di cose su cui ho preferito tacere per non rovinarvi le sorprese. E qui mi fermo. 

Buona lettura!

lunedì 27 aprile 2015

Il Molo al Tramonto, di Sauro Nieddu


Amabilmente anziano
curvo, senza apparire stanco
fermo come una statua
in una panca sul molo.
La lenza in mano, sempre
ma non pescava nulla:
la sostanza incarnata
di un'attesa serena.

Incuriosito
lo interrogai una sera
sulla sua occupazione.
Forse fui deluso
a sapere che vedeva
mondi lontani e alieni
nelle navi in partenza
o in ciò che si celava
sotto la pelle crespa
del mare quasi calmo
mondi che sfumavano
nella luce del tramonto.
Era una soglia
il termine del molo
verso passati antichi
troppo per la memoria
per futuri preclusi
alla sua via calante.

Lo scrutai in volto
cercando di afferrare
un barlume di senno
dentro la sua pazzia.
Fu allora che mi accorsi
che sbagliava,
come sbagliavo io
nel giudicare.

Non era il molo
a protendersi altrove
ma i suoi stessi occhi
che portavano incise
in solide acqueforti
tutte le sue visioni.
E sebbene mancasse
la ragione in quegli occhi
nemmeno la follia
trovava spazio.

sabato 25 aprile 2015

Ghiaccio-Nove (Cat's Cradle, 1963), di Kurt Vonnegut


Ho letto solo di recente questo romanzo. Il primo pensiero che mi è passato per la mente è: Come ho potuto interessarmi alla fantascienza per tutto questo tempo ignorando questo libro? Il secondo: come diavolo ho preteso di mettermi scrivere senza conoscere l’opera di Vonnegut?

Sono domande che rivelano, lo ammetto, una certa spocchia intellettuale. Ci sono tantissime cose che non ho mai letto, e altrettante che non leggerò mai, che probabilmente mi farebbero sentire allo stesso modo. La letteratura è semplicemente un campo troppo vasto perché chiunque possa esserne padrone.

La mia immagine della letteratura, in particolare, è quella di un cielo stellato. A volte ci spazio a occhio nudo, affascinato dalla molteplicità delle costellazioni. Altre volte, rapito da un singolo disegno, lo osservo al cannocchiale fino a che non mi impadronisco di ogni singola stella che lo compone. C’è anche qualche stella isolata, ben visibile certo, ma si trova in un settore del cielo quasi sgombro, mentre io ero intento a classificare costellazioni, e l’occhio non ci si è mai soffermato. Vonnegut fa parte di questa categoria. Per questo motivo mi sono poi autoassolto da quei primi pensieri accusatori.

Cercherò comunque di tenere a mente (a volte tendo a dimenticarlo), che ciò che so, e che potrò mai sapere di letteratura, sono solo briciole del tutto. Come ho già detto, il campo, già vasto di per sé, si è accresciuto in modo esponenziale negli ultimi vent’anni. E come è già accaduto in passato, molte opere di gran successo verranno dimenticate e altrettante che ora passano nel silenzio più totale diverranno, in un futuro più o meno lontano, i classici della nostra epoca.

Kurt Vonnegut innanzitutto è stato scrittore di fantascienza per una breve fase della sua carriera, distaccandosi lentamente dal genere per approdare a una sua, molto personale, visione della letteratura. Alla fantascienza ha donato alcuni splendidi romanzi. Il primo, Piano meccanico (Player Piano, 1952) è un utopia negativa in cui gli individui, pur vivendo in una società ricca e non necessitando di lavorare per vivere, sono frustrati dal mancato impiego delle proprie capacità. Le sirene di Titano (The Sirens of Titan, 1959) racconta di un potente uomo d’affari che viene suo malgrado coinvolto nel tentativo di creare una super religione adatta ai nuovi tempi. A coinvolgerlo è un suo ex rivale, passato a uno stadio superiore dell’esistenza che lo pone al di sopra del tempo. In realtà anche lui, come tutta l’umanità, è stato manovrato per uno scopo più “alto”.

Ghiaccio-nove(Cat's Cradle, 1963) è il terzo romanzo fantascientifico di Vonnegut, l’ultimo, e anche il migliore dei tre (questo anche a detta dello stesso autore, che lo considera il suo miglior lavoro assieme a Mattatoio-5). Nei primi due, in effetti, Vonnegut appare come un leone in gabbia. Entrambi prendono il via con una satira feroce nei confronti del sistema, ma anche dei singoli individui. In entrambi a un certo punto si nota che la scrittura, ingabbiata nella trama, finisce per lasciarsene condizionare perdendo gran parte della sua carica caustica. Ciò non avviene in Ghiaccio-nove, in cui Vonnegut, molto maturato, anziché veicolare la sua espressione a un genere di trama rigida si è rivelata limitante per il suo stile narrativo, effettua l’operazione contraria. La trama, cioè, finisce per diventare un filo sottile il cui scopo è solo offrire una traccia per le considerazioni e la satira dell’autore.

Si tratta di un’opera il cui unico elemento fantascientifico, il ghiaccio-nove che da il titolo italiano al romanzo, non ha un ruolo preponderante. A livello tematico si potrebbe dire che si tratta di un puro espediente e anche nella trama rimane uno dei tanti elementi secondari e trova il suo “momento di gloria” solo negli ultimi capitoli.


La storia è quella di uno scrittore indipendente che raccoglie materiale per un suo libro sulla bomba atomica. Questo libro vuole cogliere gli aspetti emotivi del giorno in cui venne lanciata. A questo scopo il protagonista contatta i figli di Hoenniker, uno dei padri della bomba, e tutti i colleghi con cui ha l’opportunità di parlare. Il maggiore degli Hoenniker, dato per morto, ricompare improvvisamente a San Lorenzo, una minuscola repubblica delle banane, e il protagonista decide di andare a intervistarlo. Lì a San Lorenzo, troverà la sua religione e il mondo, tramite proprio il ghiaccio-nove, il suo destino. L’ambientazione, come ho già scritto, non è fantascientifica, ma rispecchia abbastanza fedelmente il nostro mondo nei primi anni sessanta.


Finora ho parlato di “satira” riferendomi a Vonnegut, non sono però così certo che questo termine valga a rendere l’intento della sua scrittura. Vonnegut usa raramente l’ironia, che è generalmente una delle armi migliori per chi faccia satira. Piuttosto spande il sarcasmo a piene mani, e cinismo, e nichilismo. Uno degli scopi della satira (a quel che mi risulta) dovrebbe essere divertire chi ne fruisce, oltre che prendere in giro chi la subisce. In Vonnegut è senz’altro presente un certo divertimento intellettuale, ma scordatevi che Ghiaccio-nove vi offra qualche sorriso.


La scrittura è amara, disillusa verso tutti e tutto, tutto e tutti sono oggetto, in un modo o nell’altro, della satira di Vonnegut. Non esistono personaggi positivi, non esiste niente di buono al mondo, dobbiamo metterci in testa di vivere delle vite superflue in un mondo inutile.


Questo modo di guardare il mondo da parte dell’autore, diventa quasi claustrofobico nel corso del romanzo, in cui il lettore cerca disperatamente un personaggio a cui appigliarsi ma si ritrova in mano solo un finale tanto stupido quanto catastrofico. Questa visione tetra, è stemperata solo da un certo gusto dell’autore per il gioco, che in questo caso si manifesta in colpi di scena del tutto implausibili, oltre che con qualche riferimento all’interno della narrazione. È come se ogni tanto Vonnegut strizzasse l’occhio dicendo; Ok, viviamo in un mondo orribile, circondati da una pessima compagnia; almeno cerca di passare qualche ora di pace con questa lettura.


In questo romanzo, come in Le Sirene di Titano, è presente una notevole componente religiosa. Le religioni proposte sono peraltro abbastanza simili tra esse. In Le Sirene di Titano, si tratta della Chiesa di Dio Indifferente, il cui fondatore asserisce alla maniera di Epicuro che Dio non bada a noi e noi non dobbiamo badare a lui. In Ghiaccio-nove, è il Bokononismo, tra le cui premesse figura l’affermazione che ogni religione è un imbroglio, compreso il Bokononismo stesso. Partendo da queste basi, ci si potrebbe chiedere perché Vonnegut dedichi tanto spazio a delle religioni che sono poco più che barzellette nichiliste.


A mio avviso, visto che come ho già spiegato Vonnegut non salva niente e nessuno, si tratta di una specie di paradosso: le religioni sono un imbroglio, però è possibile che nonostante ciò esse rechino un effettivo conforto a qualcuno. In ciò hanno la loro ragione di esistere. D’altro canto solo una mente semplice può avere accesso a questo genere di conforto/imbroglio, senza riceverne comunque niente di realmente positivo, e quello dell’autore potrebbe essere in parte un avvertimento: guardatevi dalle religioni anche se apparentemente possono sembrare moderne e adattate al nostro mondo. La questione, comunque, è tutt’altro che semplice da analizzare e necessiterebbe ben altri spazi.


Allo stesso modo è difficile comprendere a fondo i riferimenti e i simboli che compaiono con costanza i tutti i romanzi di Vonnegut. Per farvi un esempio tra i più semplici; non trovate curioso che in un romanzo ambientato durante la guerra “fredda”, la minaccia segreta sia rappresentata dal “ghiaccio”-nove? Possibile trovare altri parallelismi tra il ghiaccio-nove e la guerra fredda? Modalità, tempistiche storiche etc… Provateci e mi direte.


Ma mi accorgo, rileggendo, di avere parlato di Ghiaccio-nove, senza però darvi un motivo chiaro per cui leggerlo. Eccolo dunque, e più d’uno. Leggete Ghiaccio-nove perché è la prima opera in cui Vonnegut si rende pienamente conto delle proprie (geniali) capacità e dei propri limiti. Con questo romanzo, e quelli successivi, Vonnegut abbandona le strade trafficate per tracciare il suo cammino personale nella letteratura. Leggete Ghiaccio-nove perché i grandi autori sono tali in quanto capaci di trasportarci nel loro mondo, di regalarci il loro modo di vedere, e Vonnegut, una volta entrati nella sua mente (o una volta permessogli di entrare nella vostra; punti di vista) è un tizio di cui è davvero difficile liberarsi.


Leggete Ghiaccio-nove, ma ricordate sempre quando è stato scritto; in esso si respirano post-modernità, pop-art, una concezione generale del mondo e dell’arte che vi renderanno difficile tenere a mente che ci viene da un passato lontano ormai più di sessant’anni.

venerdì 24 aprile 2015

Il Market, un racconto di Luca Deriu

Il Market


Là davanti, qualche marocchino sorbiva la sua meritata birra calda e l’accattone chiedeva qualcuno dei pezzi di metallo che avevo in tasca. I tempi erano migliori qualche anno prima quando di marocchini ce ne erano a decine e tutti spacciavano, ma proprio tutti. Appena mi vedevano anche in lontananza era il finimondo; gente che fischiava, sbraitava, fischiava. Qualcuno si defilava sulla fascia facendomi segno di seguirlo, un altro mi veniva incontro proprio all’angolo della piazza. 

Quella volta non avrei comprato niente, non ne avevo bisogno, dovevo solo entrare nel market, per cui misi le mani sopra la testa e cominciai a dire che non volevo niente… ormai l’ingranaggio aveva cominciato a muovere i suoi denti… Antonio mi strinse la mano con la sua molto più grossa e scura della mia, rovinata da parecchi anni di lavoro nero e sopravvivenza: è significativo come molte persone non imparano niente dalla fame. Con i suoi lineamenti da nordafricano mi chiese quanto ne avrei voluto e dovetti ribadirgli che non era mia intenzione comprare niente, al più sarei passato dopo cena. Non potei fare a meno di guardarlo in viso e questo non mi piaceva; ogni volta spezzava la stecchetta con i denti e me la metteva in mano… il cordone di bava come mozzarella filante come se non se ne volesse separare… le sue labbra carnose mi evocavano sempre la stessa scena.

Mi congedai, gli altri lanciavano sguardi e facevano cenni, quelli si che la sapevano lunga. Affrettai il passo, mi sentivo a disagio, Occhio Di Vetro era l’ultimo piazzato di fianco alla porta scorrevole vendendo le sigarette di contrabbando. Quando gli fui vicino, cominciò a urlare.- Non c’è niente qui… vattene via…

E ancora altro, in netto contrasto con la situazione reale. Mi riparai nel market, al sicuro. Reminiscenze di tempi ormai passati e persi nell’oblio della storia se non mi fossi preso la briga di raccontarveli. Non c’erano più così tanti marocchini seduti in quella piazza a forma di piramide con nomi italiani da far accapponare la pelle: Antonio, Mattia, Alex Del Piero, Occhio di Vetro… questo era un soprannome, grazie a dio tutti erano soprannomi, ma Occhio di Vetro lo era di più.

Non voglio né annoiare né dilungarmi, per cui torniamo al nocciolo della questione. Quando entrai nel market, il pomeriggio era appena iniziato. La porta scorrevole strisciò con rumore liquido invitandomi a entrare. Non c’era molta gente all’unica cassa aperta, qualcuno si aggirava per gli scaffali. Non presi neanche il cestello, tanto dovevo prendere solo una cosa, anche se per raggiungerla dovevo fare quasi tutto il giro del negozio. Questo market è strano, decadente, puzza di vecchio ed è anche dannatamente caro. Negli scaffali c’è scritto un prezzo e nello scontrino ne trovi un altro, decisamente più alto. La frutta e la verdura danno il benvenuto al nuovo arrivato, lo scatolame fa gli onori di casa.

Sorvolai tutte le scansie, esitai solo in quella della birra: avevo pochi soldi e molta fretta e l’unica birra in offerta era di qualità imbarazzante. Certi posti ti spingono a desiderar di spendere più soldi del necessario. Era a fianco alla cassa, l’articolo che m’interessava, sì, proprio a fianco alle lamette ai cioccolatini al burro cacao e alle patatine: la confezione di preservativi.

Qual è il problema, vi chiederete a questo punto? Nessuno mi sentirei di rispondervi… eppure sembra strano, ma mi sentii un po’ in imbarazzo; sono timido io e spesso ho paura di essere nel torto anche quando ho ragione. Scelsi un pacco e lo misi sul nastro trasportatore. Eravamo in quattro; io, la cassiera, una donna che mi precedeva nella fila, e una bambina che veniva dopo di me.

Liquidiamo subito la donna perché le sue idee poco ci interessano. avrà sicuramente guardato con sdegno il pacchetto e pensato alla maniera puritana tipica delle donne cattoliche di cui tanto abbondiamo in Italia. Avrà pensato a suo figlio: lui no che non sarebbe entrato in un negozio a comprare un pacco di preservativi. Poi il dubbio incrinò la sua sicurezza… ma no, suo figlio non ha neanche vent’anni figurati se… poi avrà pensato a sua figlia; lei era un po’ più grandicella e così avrà pensato al suo ragazzo, che faceva come me… eh sì, lui sì che ne sarebbe stato capace.

Non gli era neanche troppo simpatico, aveva uno sguardo che sfuggiva. Ma neanche… solo una sensazione, non di ostilità, ma neanche di simpatia, non avrebbe saputo dire cosa: pregiudizio? Neanche lei era arrivata vergine al suo matrimonio, una nuova vita ingrossava il suo abito nuziale sopra l’addome… Cominciò a pensare a sua figlia avvinghiata al corpo di lui… se lei lo aveva fatto, perché non avrebbero dovuto loro, giovani e belli. Poi le carni si sarebbero imputridite e il desiderio sarebbe andato in pensione. Inaccettabile.

La donna raccolse la sua spesa nei sacchetti, pagò non prima di aver scambiato qualche battuta con la cassiera. Vi lascio solo immaginare cosa si possano esser dette. Ricordo solo che tentarono di essere simpatiche e questa è una cosa a me insopportabile.

Quella cassiera era sempre una tortura per me. Mi era familiare perché era sempre a battere quei prezzi aumentati e a chiedere quella maledetta tesserina. Non credo che fosse una persona malvagia. Probabilmente c’era del buono in lei, forse anche di più, ma la compassione sa fare molto male a volte, e compassione provo ogni volta che la vedo. Ed è ormai da qualche anno che la vedo, sempre un po’ più vecchia, anche se avrà a malapena quarant’anni neanche portati poi così male… frigidità nel corpo, frigidità nella mente, gli occhi che hanno cercato e stanno per ritirarsi (siamo già alle soglie del tempo massimo), la speranza persiste solo per onore di firma. Nessuna fede al dito. Dito nella piaga per la cassiera: i preservativi al centro del quadrato di persone. Dito accusatore nei miei confronti.

Chissà cosa frullava nella testa della poveretta. Forse invidia per ciò che ne avrei fatto, probabilmente rammarico per ciò che non avrebbe potuto fare. Era troppo tardi ormai? A che punto saresti arrivata per soddisfare la tua voglia di uomo? È inutile continuare la tua commedia! Perché devi soffrire tu? Ma soprattutto io, costretto a vederti ogni volta che devo mangiare?

Immagino tutta la sua vita, anzi per essere più preciso immagino gli ultimi quindici anni della sua vita di cassiera. All’inizio sembra un buon lavoro, si è a contatto con molte persone viene quasi naturale ridere e scherzare, poi questo diventa una maschera, si ha sempre lo stesso umore apparente, ciò che in principio si fa con piacere diventa falso, brutto e sconveniente. Con il passar degli anni ci si rende conto che le persone che gravitano nel micromondo del market non sono poi così tante, che il proprio culo non si è mai staccato da quella sedia, e soprattutto che il tempo è inesorabilmente passato e non tornerà più. La traccia più evidente, le ragnatele dove si uniscono le cosce della poverina.

Il pacchetto era sempre lì, supremo monito all’atto sessuale concepito alla maniera moderna. Tutti e quattro facevamo finta che fosse tutto normale. Tutto era normale, anche se non lo era.

Probabilmente sono arrossito, mi sentivo a disagio e la situazione si stava facendo sempre più penosa. La donna raccolse le buste e se ne andò, fu un sollievo, rimanemmo solo in tre. La bambina dietro di me mi guardava con aria confusa, forse non si era resa conto. Mi pentii di non aver preso nient’altro così avrei potuto dissimulare, passare temporaneamente inosservato. Ci avevo anche pensato, ma con un moto di orgoglio mi ero chiesto perché mai mi sarei dovuto vergognare, cosa che effettivamente non è successa. Sono state altre le situazioni in cui mi sono vergognato.

Era il mio turno e la cassiera mi chiese:
‒ Ha la tesserina?
Era cortese come al solito e ciò mi fece andare in bestia come sempre, come ogni volta. Perché chiamarla tesserina una cazzo di normalissima tessera: tessera, cazzo! Se aggiungiamo il fatto che la tessera non l’ho mai avuta…
‒ No. ‒ risposi gentilmente.

Sapevo che la bambina mi guardava eppure non aveva capito. Probabilmente non era ancora a conoscenza dei segreti della natura. Avrà avuto sette, otto anni? Mi ricordo che quando avevo la sua età, non so se sia un bene, già conoscevo i dettagli della procreazione, del rapporto sessuale in senso stretto e lato. Andavo in giro nel mio paese di origine con un paio di bambinetti piuttosto smaliziati, alcuni pensavano esclusivamente al momento in cui la propria asticella avrebbe dato i primi frutti. Avevo sette anni quando con un mio vicino di casa, che era di due anni più piccolo di me, stavamo giocando nella piazza vicino alle nostre abitazioni e scorgemmo un gruppo di ragazzi del mio vicinato che si accalcavano in un angolo riparato.

Era estate, pomeriggio, e dalle mie parti sa far molto caldo. Quando ci siamo avvicinati, i ragazzi ci hanno accolto a braccia aperte contenti di poterci mostrare il bottino di una battuta di caccia in qualche angolo del paese. Ci mostrarono quindi un giornale pornografico. Dapprima non capii, poi ricordando anche i discorsi dei più grandi cominciai a orientarmi. C’erano due uomini, uno che camminava in un sentiero, l’altro con un cappello da cow-boy osservava dalla cima della rupe, come volesse tendergli un’imboscata. Non ricordo lo sviluppo della trama ma dopo un paio di pagine già i due presero a penetrarsi in parecchie posizioni. Indossavano solo stivali con gli speroni. La cosa che mi colpì non fu tanto il rapporto tra due uomini quanto il primo piano di un membro bagnato dal suo fluido. Al che, io chiesi all’amico più grande come mai si fosse pisciato addosso, e questi rispose senza neanche prendermi troppo in giro:

‒ Quella non è piscia, è sburro!

Avevo ormai capito che a una certa età avrei anche io sburrato. È significativo anche il fatto che quella non fu la mia unica esperienza con i giornalini pornografici. Ne ebbi parecchie altre. Un altro episodio, di cui vado molto fiero, per rimanere in tema di pornografia, si svolse qualche anno più tardi allorché io e i miei coetanei ci preparavamo alla prima comunione. Dovevamo confessarci, non ricordo se come prova o realmente. Fatto sta che il giorno prima, io e la cricca di scalmanati avevamo trovato un giornalino porno nascosto dietro ad una pianta di datteri proprio nel piazzale di chiesa, al che, risate e schiamazzi. Quando entrai in chiesa. un prete che non avevo mai visto si incaricò di purificare la mia anima. Mi disse di aprirmi a lui.

‒ Ogni tanto dico bugie. ‒ gli dissi.
‒ Rubi?
‒ Ogni tanto, a mamma, qualche spicciolo

Niente riguardo masturbazione bestemmie e cose del genere. D’altronde ero troppo piccolo per queste cose, per cui iniziò la sua predica. Un vero e proprio lavaggio del cervello mi fece quel pretaccio miserabile, blaterando qualcosa tipo; perdono in cambio di comportamenti decorosi. Ero stupefatto dalla potenza del suo sermone, mi sentivo sporco dentro e, cosa meravigliosa, non capivo niente di quello che diceva. Il bello era, questo l’ho capito dopo, che recitava un discorso che probabilmente aveva ripetuto un po’ a tutti nel corso della sua storia di prete miserabile e modesto. Cominciai a pensare che la salvezza mi fosse pregiudicata visto che pareva fossi un mostro. Era come se non si stesse riferendo a me, era portavoce di una verità assoluta. Mi concesse l’assoluzione dopo un po’ che parlava, vi assicuro che parlò a lungo, e mi punì con qualche ave Maria e Padre nostro.

Mi allontanai confuso, mi sedetti nella panca e recitai di cuore le preghiere perché mi sentivo veramente puro. Non avrei mai più detto una parolaccia in vita mia. Quando finii, mi diressi alla luce della piazza e aspettai il mio amico che proprio in quel momento veniva operato al cervello dallo stesso prete; bambino nuovo in un mondo nuovo. Quando finì, mi raggiunse e ci sedemmo di fronte al portone della chiesa. Sembrava anche più scosso di me. I minuti passarono e la noia si impose a noi senza farsi vedere: dovevamo fare qualcosa. Ma cosa?

‒ Che facciamo? ‒ chiesi.
- Non lo so.
Qualche attimo di silenzio.
‒ Andiamo a vedere il giornalino? ‒ dissi senza neanche pensarci. Mi guardò e i suoi occhi erano sofferenti.
‒ No… dai… no… ‒ rispose senza guardarmi.
Mi resi conto che era ancora troppo presto per tornare alla vita di tutti i giorni. Quel giornalino non lo guardammo più. Morale? Nessuna.

Tornando al discorso del market, la bambina accanto a me sicuramente non aveva ricevuto un’educazione sessuale paragonabile alla mia, forse per lei è iniziato tutto così. Forse è tornata a casa e avrà chiesto alla madre qualcosa su quella scatola di profilattici, ricevendo una risposta per niente soddisfacente. Magari ora è diventata una pornostar di successo, o da allora ha cominciato a molestare i suoi compagni di scuola: in uno di questi casi la mia presenza lì in quel momento non sarebbe stata vana.

Ricordo qualcosa riguardo le risposte vaghe, per niente soddisfacenti. Ero molto piccolo e in casa c’era un libro sull’uomo preistorico. Mi piaceva da impazzire sfogliarlo, tutto pieno di illustrazioni di scimmie a quattro zampe che, pagina dopo pagina, diventavano più alte meno pelose e stavano sempre più ritte. Ero ancora troppo piccolo per leggere. Il problema era che a scuola la maestra, che il sabato mattina faceva religione, ci raccontò quella storiella famosa che parla di un tipo strano chiamato Dio che un giorno annoiandosi da morire decise di creare l’universo. Il primo giorno creò una cosa, il secondo un’altra, e così si divertì fino al settimo quando si godette il meritato riposo.

Durante questo delirio di onnipotenza fu creato l’uomo, in via ancora sperimentale, nel numero di due esemplari, per giunta a sua immagine e somiglianza. Ero dunque libero di figurarmi Dio come un onnipotente aye-aye sugli alberi del Madagascar? Vivevo in uno stato di contraddizione riguardante le origini di tutto. Scimmie o Dio? Ero troppo piccolo per risolvere il problema da solo per cui chiesi aiuto a mia madre.

‒ Mamma, ma noi siamo stati creati da Dio o ci siamo trasformati dalle scimmie come nel libro?

Mi rispose che erano un po’ tutte e due le cose. Non fui soddisfatto e tenni dentro per parecchi anni questa contraddizione. Non ricordo chi mi disse che queste erano come dire… metafore… METAFORE!?! E ancora… cose figurate… COSE FIGURATE!?! Ora ricordo chi ebbe il coraggio di dire a un ragazzino dilaniato dalle curiosità queste cose disgustose: la mia catechista della cresima.

Stavamo leggendo dal libricino del catechismo, dove ci sono tutte quelle sconcerie tipo; buoni samaritani, compendi con preghiere, storie di nuovo e vecchio testamento. Questa stupida ci faceva leggere le storielle anche perché, pur essendo dodicenni, già eravamo più eruditi di lei. Mi toccò leggere la storia di Abramo che ricevendo ordini da Dio fu costretto a scegliere tra la fede e suo figlio e quello, all’apice della propria stoltezza, scelse la fede. Portò suo figlio Isacco al sacrificio ,e proprio quando stava per sgozzarlo come un agnello, un angelo gli fermò la mano e gli disse che a Dio non passano inosservati questi gesti bellissimi e che poteva pure tenersi suo figlio.

Quando finii di leggere, ero confuso. Chiesi se Dio poteva prevedere il futuro, cioè se aveva bisogno di questa prova per capire se Abramo avesse effettivamente fede. Proviamo a riassumere la discussione:

‒ Ma Dio lo sapeva che Abramo avrebbe sacrificato suo figlio? ‒ chiesi.
‒ Certo ‒ mi rispose la stupida: fede cieca.
‒ Allora perché glielo ha fatto fare, visto che lo sapeva?
Parve esitare poi disse secca:
‒ Era una prova.

Il bello era che alcune compagne annuirono compiaciute, nessuno seguitò a martellare la catechista con domande a cascata, nessuno avrebbe mai capito niente di religione. Forse per essere religiosi bisogna non capirci niente. Mi sentii solo. Era una prova, che aggiungere… Ora mi fido solo delle prove sperimentali effettuate controllando attentamente tutti i parametri in gioco.

La commessa passò il pacchetto nel lettore ottico, pagai e uscii senza guardarmi indietro. Tolsi la plastica della confezione appena fuori, perché era troppo ingombrante e non volevo incontrare nessuno in quel momento. Buttai la plastica, misi il pacchetto in tasca dirigendomi verso casa. Ero libero.










Macerie, di Claudio Piras Moreno. Recensione di Sauro Nieddu

Macerie, di Claudio Piras Moreno.



Ho letto Macerie, con molto piacere dall’inizio alla fine. È un romanzo molto personale, innanzitutto, del tutto slegato dalle mode del momento e dalle logiche commerciali, e già questo rappresenta a mio avviso un punto di partenza molto buono. 

Macerie racconta della distruzione di Antro, un piccolo paese della Sardegna, per opera di una frana, e della sua ricostruzione. Racconta anche la storia di Pietro, giornalista originario del paese, e della sua ricerca della memoria perduta. Racconta infine di Antoni, misterioso personaggio scampato alla distruzione di Antro, tratto in salvo dallo stesso Pietro, che parlando con gli spiriti di coloro che al contrario non sono sopravissuti, si fa portavoce della memoria del paese. Queste storie si fondono alla perfezione in un racconto che, trascendendo i singoli elementi che lo compongono, descrive una realtà più sfumata e infinitamente complessa di quella che ci è dato di percepire con i sensi.

Il romanzo ha una struttura piuttosto complessa, la linea della narrazione principale è frammentata, con la voce narrante esterna che vaga inquieta seguendo a tratti un personaggio, a tratti un altro, a tratti scorre libera su un paesaggio vivente che va considerato anch’esso alla stregua di un personaggio. In altri momenti, la narrazione è affidata alla voce di Antoni, che raccontando le vicende dei morti di Antro, compone una serie di micro-racconti che si inseriscono nella trama principale integrandola e dandole un senso compiuto che si rivela solamente nel finale.

Non si tratta di un romanzo di facile lettura, in parte proprio a causa del modo in cui è strutturato. in particolare, nella parte centrale, la linea narrativa è così frammentata da dare pochissimi punti di riferimento al lettore, costretto quindi, se mi passate il termine nautico, a navigare a vista. Anche la scrittura in sé potrebbe creare qualche difficoltà ai lettori meno smaliziati, si tratta infatti di una scrittura di altissima qualità, ma lontana dai canoni di semplicità “obbligata” in voga negli ultimi tempi. Una scrittura articolata nella struttura delle singole frasi, lessicalmente ricca. Una scrittura antica in un certo senso, del genere che ci si potrebbe aspettare in un classico della prima metà del secolo scorso, anche se, data la consapevolezza dei canoni espressivi mostrata dall’autore, la si potrebbe definire tranquillamente post-moderna.

Tutto ciò non rappresenta in ogni caso un limite del romanzo stesso, che a fronte di questa complessità (che attenzione, non è sinonimo di pesantezza) ricambia il lettore con parti che sono quasi poesia, con una ricchezza di significati e di stati d’animo che a mio avviso ne rendono la lettura un'esperienza particolare; di certo non lascerà l’amaro in bocca al lettore facendogli dire: “beh, tutto qui?” semmai al contrario, lo stimolerà a una seconda lettura per cercare di carpirne tutti i significati profondi.

Ci sono due punti di forza, oltre alla scrittura ricercata di Claudio Piras Moreno, che fanno di Macerie un romanzo decisamente sopra la media. Il primo, le storie degli di abitanti di Antro raccontate da Antoni, che come i pezzi di un mosaico s’incastrano fino a formare un'immagine definita del paese ormai svanito nel nulla. Questo processo avviene con naturalezza, tanto che quest’immagine si rivela spontaneamente, senza che il lettore quasi se ne accorga. Il secondo è una concezione dello spazio-tempo e del modo in cui la mente umana ci si relaziona, davvero originale. Si avvicina, forse, ai concetti dello spazio interiore adottati da autori come J. G. Ballard, Doris Lessig o Kurt Vonnegut, seppure con una visione del tutto personale come, del resto, l’hanno gli autori citati.

Che dire. Nel complesso un romanzo di valore, introspettivo, profondo e ben scritto, che deve sacrificare un po’ di immediatezza sull’altare di queste qualità. Non aspettatevi perciò uno dei soliti romanzi usa e getta, e lo dico soprattutto ai lettori di best sellers. Macerie è un romanzo fatto per resistere alle mode, una lettura fuori dal tempo che richiede impegno al lettore, ricambiandolo con riflessioni originali sul senso della vita e della morte, sulla reale essenza della realtà che ci circonda. Se volete esercitare il cervello con una lettura che esca dalla banalità, e soprattutto da un certo appiattimento stilistico che lega tra loro molti scrittri attuali, Macerie è un romanzo che potrebbe fare per voi.




mercoledì 22 aprile 2015

Una decisione drastica, di Sauro Nieddu

Una decisione drastica


Mi dispiace, continuava a ripetere Elena, mi dispiace. Mi dispiace.

La cosa più tragica, per Aldo, era che non riusciva ad arrabbiarsi con lei. Distolse lo sguardo dalle sue lacrime, dai capelli scarmigliati, dalla disperazione che echeggiava nella sua voce. Al suo sguardo però mancava un porto sicuro dove approdare. La stanza parlava di loro come coppia fin nel suo più insignificante componente. Quella stanza era, in effetti, la loro vita di coppia.

Così lo sguardo faticava a posarsi sulla mensola del camino dove il candeliere ricavato da una vecchia molla di materasso, irrideva le speranze per il futuro di una ex giovane coppia. Lo sguardo fuggiva il divano, che avevano scelto assieme ma che a lui non era mai piaciuto, e la chitarra poggiata al bracciolo; ormai era diventata una suppellettile d’arredamento, e gli pareva assurdo che quell’oggetto, sotto il tocco delle sue dita, avesse intrattenuto tante serate, tanto tempo prima, gli pareva impossibile che lui fosse stato capace di trarne dei suoni e che la voce di Elena avesse accompagnato, senza troppa grazia ma con impegno, quei suoni. Perfino la ragnatela all’angolo, proprio sopra la libreria, parlava della loro vita. Ne parlava al passato.

Aldo non era in grado di provare rabbia perché sapeva che sarebbe potuto capitare anche a lui. Nonostante continuasse ad amare Elena come il giorno che si erano sposati, era andato vicino a lasciarla, qualche anno prima, per Carla. Non era successo, ed Elena non ne aveva mai saputo niente. Lui aveva resistito a quell’impulso, lei no. Questo sarebbe stato sufficiente a odiarla, ma non lo era. Forse la passione che si era impadronita di sua moglie era più coinvolgente di quella che aveva afferrato lui, forse era Elena a essere più debole. Non aveva importanza. Sapeva che lui stesso era stato sul punto di cedere e sarebbe bastato così poco perché lo facesse… perciò Elena non era salda quanto lui; lo aveva sempre saputo, quindi si poteva dire che fosse tutto normale. Insomma, se lui era riuscito a malapena, figurarsi lei.

Mi dispiace, e questo fu l’ultimo. Lei gli voltò le spalle e uscì. Martina e Sofia, con i loro vestitini svolazzanti e la loro irreprensibile ignoranza di ciò che stava accadendo, lo avevano già salutato, e ora attendevano la madre sulla Toyota di Paolo, assieme ai loro bagagli. Aldo si accostò alla finestra e attraverso la tendina di pizzo vide Elena uscire dallo stabile e introdursi nella Toyota. Poi la macchina emise uno sbuffo dal tubo di scappamento, partì e fu tutto finito.

Aldo aprì tutti e quattro i fornelli, senza naturalmente accenderli, e si stese sul divano. Per quanto avesse agito con leggerezza, qualcosa nella sua mente dovette percepire che il momento era topico, e come fa sempre la mente quando si trova davanti a un nodo cruciale della vita, incominciò a sragionare.

Si accorse, dunque, che la partenza di Elena non era in realtà niente di grave. Da tempo lui non la amava più. La amava, cioè, per una specie di senso del dovere, ma l’amore vero è un'altra cosa. La stessa cosa poteva dirsi per le bambine. Non poteva cercare sollievo nel lavoro, o negli hobby, perché in realtà, per quanto se ne accorgesse solo in quel momento, lui detestava il proprio lavoro, e gli hobby, di quelli non gliene fregava proprio niente, erano solo diversivi che portavano via il tempo consentendogli di sopportarlo. Le uscite con gli amici… idem, ma quando mai li aveva considerati realmente amici? La sua vita era una somma di abitudini consolidate che nell’intrecciarsi davano luogo a una routine che simulava la vita come sarebbe dovuta essere. Perché di certo lui non poteva definirsi davvero vivo, era un robot programmato dalla quotidianità.

Questo pensiero, quasi fosse un’illuminazione, gli fece aumentare per un attimo i battiti, poi, quasi all’istante, rendendosi conto della banalità dei suoi pensieri, sentì un’onda di disgusto verso se stesso che lo avvolgeva completamente. Come poteva pretendere, lui che non era realmente vivo, di avere pensieri originali? Sì alzò nervosamente dal divano e andò in cucina a chiudere il gas, non sopportava l’idea di andarsene portandosi appresso, come ultimo ricordo, il puzzo nauseabondo del Gpl.

Ok, avrebbe cercato una donna che lo aiutasse nelle pulizie domestiche e gli facesse trovare i pasti pronti. Per il sesso se la sarebbe cavata con una prostituta, una volta al mese ‒ così andava con Elena, negli ultimi tempi ‒ sarebbe stata adeguata. Per il resto avrebbe potuto continuare esattamente come prima. La sua vita non esisteva più, inglobata dalla routine, e la routine, ora se ne rendeva conto, non aveva certo bisogno di una famiglia.

O forse… forse gli ultimi avvenimenti erano un’opportunità di resurrezione, un avvenimento cosmico che fino a quel momento aveva mal valutato. Un’occasione per districare se stesso dall’abitudine e far risorgere la propria vita, sentirsi nuovamente vivo. Un altro dubbio prese immediatamente forma nella sua mente. Lui sarebbe stato in grado di liberarsi delle abitudini, o ci era troppo invischiato? Che cosa avrebbe fatto per allontanarsi da quella vita-non vita in cui si trascinava? Che cosa sarebbe voluto essere in una vita davvero degna di essere vissuta?

Aldo rimase immobile sul divano a rifletterci per svariate ore, poi all’improvviso prese la sua decisione. Nonostante fosse ottobre inoltrato e la temperatura esterna tutt’altro che mite, si spogliò nudo e uscì da casa. Viveva in periferia, praticamente in campagna, e alle undici di notte nessuno lo vide dirigersi verso il fiume. Una volta lì, ormai sicuro di voler passare il resto della propria vita da pesce, si tuffò nell’acqua gelida del fiume. Appena si trovò sommerso provò un attimo di panico: non aveva pensato a che razza di pesce sarebbe stato. La soluzione però arrivò quasi subito e con essa svanì l’attimo di panico. In forma di anguilla Aldo raggiunse il fondo fangoso del fiume e, strisciando tra le alghe, cominciò la sua discesa verso il mare.