mercoledì 27 maggio 2015

Per Mia Colpa, di Antonella Mattei. Recensione di Sauro Nieddu

Per Mia Colpa, è un romanzo che mi ha catturato sin dalle prime pagine. Sin dalle prime frasi, anzi, mi sono lasciato prendere dalla scrittura semplice, ma allo stesso tempo varia ed efficace. Col procedere della storia, ho potuto apprezzarne anche la struttura , tanto agevole da seguire che fa passare quasi inavvertitamente i flashback e la frammentazione di alcune scene. Questo in virtù del fatto che niente appare raccontato in maniera casuale, e ogni momento della narrazione contiene informazioni sostanziali allo svolgimento della storia e alla caratterizzazione dei personaggi.

Le qualità del romanzo non si limitano però a quelle stilistiche. Per Mia Colpa, è anche un romanzo carico di spunti, e in cui, altra qualità che mi ha colpito, i significati si svelano lentamente nel corso degli avvenimenti, riuscendo a cogliere di sorpresa il lettore nonostante la narrazione sia fluida e priva di eclatanti colpi di scena.

La trama in sé è piuttosto semplice. Si racconta la vita di Agnese, ragazza con una famiglia difficile alle spalle, cui la vita non ha offerto altro che vessazioni e che tira a campare facendo piccoli lavoretti procuratigli dal parroco del paese. Questo fino a quando l’incontro con Lea, che la prenderà sotto la sua ala protettrice come fosse una figlia, non cambierà la sua vita. Lea è una donna eccentrica, malvista dalla mentalità ipocrita del paese, ma sarà lei a rendere alla protagonista la dignità che merita.

Personalmente, la prima parte mi aveva indotto a vederlo come un semplice racconto di formazione. Poi la parte centrale, in cui Lea racconta ad Agnese la sua storia e in particolare il periodo che la vide deportata e privata della sua famiglia dagli occupanti tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale.

Inizialmente anche questo flashback mi aveva traviato, facendomi credere che il romanzo fosse in qualche modo incentrato sulla Storia, con la esse maiuscola, e sulla memoria. Ma la Storia in questo caso resta in sottofondo, e quel che conta davvero è la vicenda personale di Lea. Superata questa parte, s’inizia a capire in maniera graduale quale sia la direzione finale del romanzo.

Quindi, a questo punto chi sta leggendo si chiederà; “ma in sostanza, di cosa parla questo romanzo?” La mia risposta è; “come per qualunque romanzo di una certa complessità, non è facile da definire”.

È un romanzo che a me ha parlato di voglia di libertà, di come la mediocrità dell’ipocrisia possa essere vicina al male assoluto, e di come la lotta per non soccombere al male possa portare vicino ai suoi confini. È giusto lottare con qualunque mezzo per difendere la propria dignità da una massa informe che di questa parola conosce a malapena il significato? Per le due protagoniste di questo romanzo, la risposta è indubbiamente un sì. Non c’è però un giudizio finale da parte della voce narrante, che, pur simpatizzando con Lea e Agnese, non prende posizioni decise lasciando che il lettore sia libero di formarsi un proprio giudizio.

Dunque una visione della mediocrità come morte della dignità umana. Ma il romanzo, parla anche delle affinità elettive e di come i rapporti che ne scaturiscono possano dar forma all’amore nella sua concezione più alta. Un amore che non necessita dare o prendere, ma semplicemente esiste come legame indissolubile. Tale è il rapporto tra Lea e Agnese. Questa concezione s’intuisce però anche dal legame, più marginale nell’economia del romanzo, tra Lea e un soldato tedesco conosciuto al campo di prigionia. Se ne vede un barlume perfino nel breve, ma pregnante, incontro tra Lea e Ignazio, un vecchio solo cui Agnese sbriga le faccende domestiche. Questo breve episodio, inserto nella parte centrale del romanzo, del resto sembra messo lì proprio per fornire al lettore alcune chiavi di lettura.

Altra cosa da rilevare, i personaggi sono molto a fuoco, inquadrati alla perfezione come esseri umani ma carichi di una simbologia che rafforza il romanzo. Tra essi, giacché gli altri sono stati menzionati, vorrei segnalare la figura del parroco, Don Gino, che facendo da contraltare alle protagoniste cerca di tener salda la propria dignità (senza riuscirci) pur stando a stretto contatto con l’ipocrisia della massa, è lui, alla fine, l’unico vero sconfitto della storia. Un ruolo di rilievo, è svolto anche da Dori, la madre di Agnese, la cui figura, pur negativa, resta fuori dal quadro generale e ambiguamente incorpora in sé il ruolo di vittima e di carnefice.

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