Chi sono? (ovvero; Sauro Nieddu e l’esistenzialismo)
A tutti capita, una volta o l’altra nella vita, di porsi le fatidiche domande: Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?
Ovviamente, essendo un essere umano come
tutti gli altri, è capitato anche a me di pensarci. Eppure, evidentemente, devo
essere più intelligente della media; la risposta alle prime due domande mi è
balzata all’occhio come una mosca balza al naso. Ancora mi chiedo come mai
tanti filosofi ci si siano rotti la testa, visto che la risposta è banale,
quasi ovvia. La risposta, tra l’altro, è la stessa per ambedue le domande ed
è: dipende.
Se m’incontrate in via Oristano verso le
due del pomeriggio, che pedalo verso la stazione, quasi di sicuro starò venendo
da casa e andando a comprarmi le sigarette. Se mi vedete pedalare in via
Oristano, alle due e cinque, diretto dalla parte opposta alla stazione, con
ogni probabilità verrò dal tabacchino della stazione e sarò diretto verso casa,
a fumarmi una sigaretta.
Se mi vedete in via Oristano, tra le sei
e le otto del pomeriggio, e pedalo verso la stazione, è praticamente certo che
stia andando al bar Pino, a bermi qualche birra. Se mi vedrete nella solita via, che vado nella direzione opposta (e soprattutto le mie pedalate non mi conducono
in linea retta), tra le nove di sera e le quattro del mattino, potete esser
certi che venga dal bar e sia diretto verso casa.
L’ultima domanda, invece, mi ha creato
qualche problema. In parte, come per le altre due, si può dire che avessi la
risposta già bella pronta nel taschino. Nieddu
in sardo significa semplicemente nero,
e non avevo nemmeno bisogno di tradurre per capirlo; bastava che mi guardassi
allo specchio…ma Sauro, decisamente,
mi dava qualche grattacapo in più.
Per completare la scoperta di me stesso,
mi affidai al vecchio e glorioso dizionario etimologico di mio padre (sto
parlando dei primi anni del terzo millennio, e dizionari ed enciclopedie
cartacei, pur esistendo ancora, erano già in via d’estinzione), risaliva agli
anni cinquanta del secolo scorso, con tutto quello che deve aver passato per
arrivare fino ai giorni nostri, sfido chiunque a provare a contestarlo.
Dunque presi in mano l’antica reliquia e
la sfogliai delicatamente per non rovinare le sacre pagine. E finalmente
eccola, accovacciata là, sul fondo di una pagina come un'altra, la risposta
alla domanda più importante. Accesi la luce per riuscire a leggere sulla carta
ingiallita, ormai simile a una pergamena. Questo fu ciò che lessi:
sàuro,
agg. Di cavallo, D’un color rosso castagno uniforme e più o meno intenso, e con
le estremità, la criniera, la coda, un poco più chiare del resto: Sauro chiaro,
Sauro dorato, etc.
Fu subito ovvio che qualcosa non andava…
cioè, mi pare logico che un sauro, in quanto tale, non può essere nero; sarebbe
una specie di contraddizione! Eppure… sentivo una vocina nella testa che mi
diceva di scavare più a fondo, forse una reminiscenza scolastica. Mi pareva che
questo genere di contraddizione dovesse avere un nome più preciso. Schioccai per tre volte le dita accanto
alla tempia, di solito era il metodo migliore per far affiorare un ricordo
sfuggente. Eppure quella volta non funzionò; la mente era come bloccata. In
compenso mi ricordai di un vecchio amico che poteva aiutarmi: G. P. Potrà sembrare paradossale che mi
rivolgessi proprio a lui, ma è un dato di fatto che tra noi terrestri, questo
genere di cultura, ai tempi, era piuttosto fuori moda.
G.P. si era trasferito in paese da una
decina d’anni. Era dovuto fuggire da Satollo, un planetuncolo dalle parti di
Orione, quando senza nessun preavviso, le donne del pianeta si erano messe in
testa di essere più importanti dei loro uomini.
G.P. all’inizio non aveva dato
peso a questo movimento. Aveva preso sottogamba tutta la faccenda fino a che un
giorno sua moglie aveva preteso di fargli lavare i piatti. Lui aveva cercato di
spiegarle in maniera razionale i motivi perché quei compiti spettassero a lei.
Purtroppo però, lei si era montata la testa e doveva essersi convinta di avere anche
una qualche superiorità intellettuale, difatti aveva osato rispedirgli indietro
con gli interessi tutte le argomentazioni. A quel punto, giustamente indignato,
l’aveva rimessa al suo posto come si usava un tempo, con una sberla sonora e
ben assestata.
Nemmeno questo funzionò; la signora P. si
rivolse al tribunale, ottenendo il divorzio alle condizioni migliori che
femmina satollana avesse mai ricevuto, e allo
stesso tempo un mandato restrittivo che impediva a G. di avvicinarsi a meno di
un chilometro dalla sua ex abitazione. Il fatto è che in tale raggio erano
situate gran parte delle sue amicizie e perfino il suo posto di lavoro. In preda alla frustrazione e alla rabbia,
fermamente deciso a non fare avere alla sua ex signora neanche un centesimo
degli alimenti che le erano stati ingiustamente assegnati, G.P. saltò sulla sua
astronave e decise di trasferirsi qui a Marrubiu.
Ovviamente, anche dalle nostre parti le
dinamiche psico-sessuali sono più o meno le stesse, però, a suo stesso dire, la
cosa non lo turba affatto; dopotutto questo non è il suo pianeta e le faccende
locali non lo coinvolgono emotivamente quanto quelle del mondo d’origine. Comunque, tralasciando le sue vicende
private, era un tipo abbastanza a posto e potevo contare su di lui per un
mucchio di cose. Riguardo a questa in particolare, devo dire che da quando era arrivato,
si era dato un gran da fare per studiare la cultura terrestre e s’intendeva di un
sacco di cose. Figuratevi che, spinto dalla naturale curiosità culturale dei
satollani, si era iscritto all’università proprio nella facoltà di lettere; se
c’era qualcuno che poteva aiutarmi a risolvere la questione, era certo G.P.
Presi la bicicletta e percorsi via
Oristano¹
in preda all’ansia. Poggiai la bicicletta proprio accanto alla porta e mi
attaccai al campanello. G. venne ad aprirmi dopo una decina di minuti, aveva un’aria
assonnata (erano le quattro del pomeriggio e i satollani, come molti terrestri, hanno l’abitudine di fare su meigamma²)
‒ G. mi serve un favore. Immediatamente. ‒ esordii senza tanti preamboli. ‒ Sai, quando si accostano due parole che hanno un significato incompatibile tra loro ma…
‒ Un ossimoro? ‒ Rispose lui con uno sbadiglio.
Sentii il mondo crollarmi addosso ma mi sforzai di essere cortese.
Sentii il mondo crollarmi addosso ma mi sforzai di essere cortese.
‒ Sì, grazie mille G. Mi sei stato di grande aiuto.
Detto ciò montai in sella e mi dileguai
mentre lui agitava la coda felina nel classico gesto satollano di perplessità.
Avevo le gambe malferme per la delusione. Non sapendo se mi avrebbero sostenuto fino a casa, decisi di fermarmi al
rifornitore e fare il pieno. Appena l’addetto al distributore finì d’iniettarmi
la siringa di carburante, le gambe tornarono toniche e cominciarono a
scalpitare. Pagai e saltai di nuovo in sella, ripartendo come un razzo verso
casa.
Beh… le gambe adesso erano a posto, non
altrettanto potevo dire dei miei pensieri; e così ero solo un ossimoro, un’astrazione,
qualcosa che non ha riscontro nella realtà. Un’astrazione semi-sconosciuta per
di più! Avevo sentito quella parola solo due volte in tutta la mia vita; la
prima dalla mia prof d’italiano che spiegava le figure retoriche, la seconda
ora, pronunciata da un amico per definire me.
Il nuovo carburante si esaurì in un
attimo, non vidi neanche lampeggiare la spia della riserva. Tornai a rallentare
e lentamente mi trascinai fino a casa. Avevo il morale sotto i tacchi e per
poco, nel passare sopra il canale, non mi gettai giù dal ponte; a chi mai
poteva importare della scomparsa d’un ossimoro?
Parcheggiai la bicicletta, chiusi il
cancello ed entrai in casa. Attraversando il salotto mi accorsi di aver
lasciato il dizionario aperto sul tavolo, lo presi per rimetterlo a posto e
solo allora mi resi conto che la definizione di Sauro che avevo letto, era
preceduta da un 1.
"Se
c’è un uno", pensai "ci dovrà essere anche un due!" Voltai pagina col cuore che martellava
nel petto, guardai cautamente e vedendo il tanto sperato due, presi sicurezza e lessi speditamente:
2. sàuro, s. m., scient.
Com. nel plur. Sauri, I rettili che hanno forma di lucertola, ma non la dura
corazza dei coccodrilli.
Tirai un sospiro di sollievo.
Intendiamoci, non che sia mai stata una
mia ambizione essere una lucertola, né, del resto, conosco nessuno che abbia
mai avuto tale aspirazione, eppure mi sentii davvero felice. Provate a capire: un’astrazione
pensante che di botto si trova ad avere una propria dignità materiale. Del resto siamo creature adattabili, e se
perfino un satollano misogino può adattarsi a vivere sulla Terra, un terrestre
può ben accettare qualche compromesso… Certo, penserete voi, una lucertola nera
non è esattamente in cima alla scala sociale, ma provate a mettervi nei panni
d’un ossimoro, almeno per dieci minuti. Capirete che correre ventre a terra,
con la linguetta che saetta ad assaporare l’aria per poi ingoiare una mosca e
quattro zanzare e fermarsi a digerire al sole, in fondo, non è poi così male.
¹ In realtà sarebbe stato
meglio passare per via Piave, ma da qualche tempo l’avevano fatta senso unico.
² In sardo, alla lettera: Il primo pomeriggio. Preceduto dal verbo
fare, prende però il significato di:
Pisolino pomeridiano.
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